A.
A. l’ho incontrata la prima sera che sono arrivata a New York. Ancora rintontita dal jetleg (sarei andata a dormire appena disfatta la valigia) l’ho vista arrivare insieme a J. Ridevano, parlavano in un inglese che avrei iniziato a capire solo dopo qualche settimana e sembravano muoversi perfettamente a loro agio in quello strano dormitorio per studenti squattrinati.
Io non facevo altro che guardare fuori dalla finestra, le luci, il flusso continuo delle macchine, il fiume, mentre sentivo ripetere dalla “capo-piano” niente alcool, niente fumo, niente visite non autorizzate. E ogni tanto mi giravo verso G. unica persona che potevo dire di conoscere, anche se l’avevo incontrata solo il giorno prima, quando mi aveva raggiunto a Roma per prendere l’aereo.
Era gennaio, New York era ricoperta di neve e io pensavo che quando avevo fatto domanda per la borsa di studio avevo soltanto voglia di andarmene via, il più lontano possibile. E poi erano passati due anni, tra esami, colloqui, burocrazia e ritardi vari, la mia vita era cambiata di nuovo e partire non era stato così facile.
Il secondo giorno tutto sembrava un’impresa: iscriversi ai corsi, trovare un supermercato, comprare una scheda americana per il cellulare, capire come connettersi a internet. Un casino. Il terzo e il quarto idem, con i corsi che iniziavano subito. G studiava economia e aveva scelto delle materie complicatissime. Io già pensavo a come avrei potuto scrivere sceneggiature e articoli in inglese. Insomma la sera ci guardavamo e senza parole ci chiedevamo se ce l’avremmo fatta.
Non mi ricordo esattamente quando è stato ma ad un certo punto A. è venuta a parlare con noi. Forse eravamo alle prese con l’ennesimo problema (cavoli ma lo sai che ho scoperto che qui il cellulare si paga pure per ricevere? mi hanno detto che questo modulo lo devo ritirare all’ufficio studenti vattelappesca ma dove lo trovo che ci sono 300 piani???) o forse semplicemente tentavamo di preparare qualcosa da mangiare in quella enorme cucina desolata (oh non cucinava nessuno eh! ). Comunque a un certo punto lei è arrivata e da quel momento la vita a New York è diventata più semplice.
Lei sapeva tutto: dove fare fotocopie gratis, dove comprare vestiti a poco, quale piano telefonico usare per risparmiare e in generale come cavarsela in una città come quella.
Ma, soprattutto, infondeva fiducia, portava con sé un senso di serenità e gioia di vivere nonostante non avesse avuto affatto una vita facile. Situazione familiare complicata, zero soldi, si manteneva da sola all’università e a New York.
Guardavo lei, con ammirazione, e pensavo che dovevo solo darmi da fare.
Prima di tutto ho cominciato a scrivere. E quando il mio prof di sceneggiatura mi ha restituito il mio primo compito, e io non avevo il coraggio di guardarlo, mi ha detto che scrivevo meglio della maggior parte dei suoi studenti americani. Da quel momento non ho più pensato se era il caso o meno di cambiare corso.
E poi è arrivato tutto il resto.
Servivano soldi e allora via con babysitting delle gemelline francesi e lezioni di italiano, dopo sono arrivati i cortometraggi e poi addirittura la sfilata, a cui devo pero’ il merito “tecnico” a J. che mi ha insegnato a camminare sui tacchi (e soprattutto a girarsi) consumando il corridoio tra le nostre camere.
A me è sempre sembrato di fare poco per A, le correggevo i compiti di francese, le parlavo dell’Italia quando lei me lo chiedeva, le lasciavo da parte il dolce, l’ascoltavo quando aveva voglia di raccontare un po’ di sé.
A. è l’ultima persona che ho salutato andandomene da New York, che ho visto allontanarsi sempre di più dal taxi e scomparire.
Non la vedo da allora.
Venerdì arriva a Milano e io non vedo l’ora di saltarle al collo.
21 giugno 2007 alle 15:13
lo sai che questa cosa della sfilata ti si ritorcerà contro? si?
21 giugno 2007 alle 15:44
Ahah… Dopo tutte le cazzate che ho fatto per Our Noise, non vedo come. Tra rane, sfere magiche, voci diaboliche e fan fuori di testa…
E poi mi sa che te l’avevo anche raccontato una volta, ma eri troppo ubriaco per potertelo ricordare…
Sara
22 giugno 2007 alle 20:18
E gira gira gira gira l’elica
e gira gira che piove e nevica,
per noi ragazzi di classe media
che per non morire si va in America.