Capitolo 2: Ladri di anime.

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Il risveglio è avvolto da una zanzariera bianca a forma di baldacchino che circonda tutto il letto. E’ mattina presto e l’aria che entra è fresca e senza suono.
Una fitta rete di tessuto alle finestre impedisce agli insetti di entrare, ma non ai raggi del sole che si appoggiano sugli spartani mobili di legno scuro e tagliano in due il mio libro aperto, con le pagine arricciate dall’umidità.
Le jeep che ci aspetta sembra dell’anteguerra. Il cruscotto appare come un unico blocco nero senza alcun indicatore o spia, il cambio è una leva lunga e sottile in mezzo al nulla.
Ci avviamo e per un attimo mi sembra di andare contromano, prima di ricordarmi che qui la guida è all’inglese. E ha lo stesso sapore coloniale del tè delle cinque che abbiamo preso il giorno prima, guardando la spiaggia bianca che il mare tornava a bagnare dopo la bassa marea della mattina.
Lasciamo la strada principale ed attraversiamo un villaggio, confusi dal tripudio di saluti dei bambini che si precipitano sul ciglio e la decisa freddezza di molti adulti che continuano, sospettosi, le loro attività.
Indecisi se fotografare o meno, vista l’accoglienza incerta, ci lasciamo guidare dal caso, pronti ad abbassare la macchina in caso di reazioni negative.
Le foto ti rubano l’anima, sostiene una vecchia credenza.
E in fondo, è proprio quello che stiamo tentando di fare, dal tetto aperto di queste jeep scassate, agitati dalle buche e bruciati dal sole ormai alto. Rubare l’anima.

La nostra jeep si ferma poco dopo il villaggio, poco lontano dalla nostra meta, ma incapace di ripartire.
Hacuna Matata, come sempre, si affretta a commentare la nostra guida.
Scendiamo, perché davanti a noi, superato qualche albero c’è una distesa sconfinata di sabbia amabilmente disegnata dal vento. Sono linee morbide ma ostinate che si riformano identiche ad ogni soffio d’aria.
Incredibilmente, la jeep, che noi già diamo per persa, riparte e ci porta fino alla foce del fiume.
Mi arrotolo i pantaloni come posso e inizio ad affondare prima con i piedi, poi con le caviglie e infine a metà polpaccio nel fango. Sembrano sabbie mobili. La cosa più difficile è mantenersi in equilibrio perché non sai mai esattamente quanto affonderai e quindi finisci per pendere improvvisamente tutto a destra o a sinistra, cercando disperatamente di non finire per terra, in quella poltiglia. Tutti ci guardiamo I piedi come se tenere lo sguardo fisso sul terreno molliccio aiutasse a rimanere in superficie.
E’ solo quando, acquistata un po’ di sicurezza, rialzo la testa che mi accorgo del motivo che ci ha spinto fino qui.
All’orizzonte, dritto davanti a noi.
Fenicotteri. Rosa. Un mare di fenicotteri rosa.
Ci avviciniamo lentamente, per non spaventarli (e poi provate un po’ a correre nel fango… ). Fino a quando loro decidono che abbiamo superato la distanza di sicurezza e si alzano in volo, per andarsi a posare da un’altra parte.
Noi proviamo a seguirli, tanto più che si sono allontanati da quella melma per tornare su un terreno più sabbioso.
Stavolta ci permettono di avvicinarci di più, fino a quando di nuovo, non superiamo il limite e dispiegano le ali.
Provo a racchiudere il volo dentro il mio obiettivo, poi abbasso la macchina e, con i piedi sempre più piantati per terra, li guardo allontanarsi.

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