Il Circo Zen.
Un po’ di tempo fa la mia amica Ze mi dice: belli i riferimenti musicali nel blog, anche se non conosco quasi nessuno. Dovresti segnalare un gruppo al mese, così io poi me lo vado a guardare.
Beh, la musica in questo blog rimane per lo più un sottofondo, magari accurato, scelto, a volte giustificato (molte altre no) ma non diventa quasi mai direttamente un soggetto. Certo poi, leggendo, si inciampa in frammenti del mondo che intorno alla musica ruota e in cui spesso mi trovo immersa, ma insomma, per intenderci, le recensioni, le scoperte e le segnalazioni le trovate da altre parti.
Detto questo, adesso quasi mi contraddico e vi parlo di un gruppo e di un album. Perché dentro, al di là del valore artistico della band in questione e del loro lavoro, per me ci stanno almeno tre cose.
Ci sta la bellezza del ritrovarsi a casa ogni tanto e ci stanno certi bizzarri meccanismi del mondo musicale e della comunicazione. E poi ci sta anche la sensazione che a volte la vita giri al contrario e possa essere magnifico.
Agli Zen Circus noi di YN siamo particolarmente affezionati, sono stati i primi a suonare nel nostro studio quando ancora era una grande scatola bianca che la musica provava solo a raccontarla.
Io ci ho aggiunto il fatto che Appino, Ufo e Karim (non chiedetemi niente dei loro nomi) sono delle mie parti e accostano al loro accento rassicurante il ricordo di posti familiari, a due passi da quella che istintivamente, da qua, continuo a chiamare casa.
“Villa Inferno” è un album in cui l’estro dell’ ispirazione si unisce al controllo della rielaborazione, la profonda italianità a un respiro internazionale che lo fa volare via. Lontano, speriamo tutti. Ci sono canzoni che ti entrano in testa dalla prima volta, che sembrano senza mezze misure e invece hanno tutte e sole le parole che servono (Figlio di Puttana). C’è la passata vita da busker con i piedi sporchi e una meta da decidere (Dirty Feet). Ci sono le voci di Kim Deal dei Pixies e sorella (Punk Lullaby) e le tastiere di Jerry Harrison dei Talking Heads (proprio nella cover di Wild Wild Life). E poi, in questo album c’è lui: Brian Ritchie, il bassista dei Violent Femmes (si quelli di Gone Daddy Gone che no non è dei Gnarls Barkley quelli del video con gli scarafaggi). Brian Ritchie non solo collabora e produce il disco ma diventa il vero e proprio quarto uomo della band. Un pezzetto di storia della musica che si aggiunge a tre rocker pisani, da anni nel sottobosco dell’indie.
Chissà quanto se ne parlerà, uno pensa. E invece se ne è parlato poco. I soliti meccanismi a metà tra musica-stampa-comunicazione.
Eppure era una storia di quelle da fare a gara a raccontare. E qui arriva quella roba lì, della vita che ogni tanto ti sorprende e inverte il giro. Che è anche l’inizio della storia e la parte che preferisco.
Un po’ di tempo fa, Brian Ritchie va da questi tre ragazzi, gruppo di apertura di un concerto dei Violent Femmes. Ha un loro disco (capitato nelle sue mani grazie a dei fan piuttosto intraprendenti). “Voi siete gli Zen Circus? Ho il vostro disco, siete davvero bravi. Avete dei progetti? Vorrei lavorare con voi”.
Tutto al contrario di come uno si aspetterebbe. Grandiosamente al contrario.
Ecco qua.
Nostalgia, comunicazione e soprese.
E adesso, per la Ze, forse, anche un po’ di curiosità.
Musica- THE ZEN CIRCUS & BRIAN RITCHIE- VILLA INFERNO.
4 marzo 2008 alle 19:21
ho letto su pitchfork che nel disco degli zen circus suona anche TJ. L’ukulele per essere esatti. Confermi?
5 marzo 2008 alle 11:54
Tj è ovunque.
Attenti. In questo momento potrebbe anche essere alle vostre spalle…
5 marzo 2008 alle 13:13
si è così e ogni volta che vedo un cerchio (o meglio, un anello) lei salta fuori dalla televisione tutta lurida e imbronciata!!!!! Sbagliato film?