Sabbia a perdita d’occhio.
Sabbia a perdita d’occhio. Quando gli stabilimenti balneari sono chiusi, il mare riguadagna il suo spazio. C’è il sole, ma fa freddo. L’aria è gelida e si infila in ogni piccola fessura lasciata aperta, dentro il cappello, tra la sciarpa e il collo, nelle tasche della giacca.
Chissà se anche i luoghi sono un’eredità, si chiedeva mio fratello due giorni fa.
Magari se lo chiede ancora, mentre affondiamo con le scarpe nella sabbia.
La cosa più difficile di quando se ne va una persona è abituarsi all’idea che non c’è più. Non la vedrai più nei posti dove sei abituata a vederla, non ti dirà più le cose che sei abituato a sentire. E se la persona è una di quelle con cui sei cresciuto, sono tanti i quadri a cui ti sembra improvvisamente che manchi qualcosa.
La naturalezza dell’abbandono, dopo una lunga vita, non rende le cose meno tristi. Vorrei essere come mia madre che si impegna fino in fondo in quello per cui vale la pena ma poi, quando non c’è davvero più nulla da fare, è capace di arrendersi. E’ capace di lasciare andare. Con malinconia, si, ma con quella ragionevolezza che io non posso che guardare con ammirazione.
La zia R. compare nei primi ricordi che io abbia la consapevolezza di avere. Insieme al campino, la casa con la lavatrice che camminava e il gatto bianco e nero sempre incazzato. Nei miei giochi da piccola, insieme a mia cugina, nelle merende al baretto vicino all’ospedale, dopo l’odioso corso di nuoto (meno male che c’erano almeno i biscottini con le cialde) nelle lunghe vacanze al mare, nella casa qui alle mie spalle. Quella in cui io e E. facevamo i tornei di carte fino alle due di notte, da piccole e poi tentavamo di fuggire, quando tutti erano andati a dormire, da adolescenti.
Lei era la memoria storica della famiglia e dopo che mia nonna se ne è andata, l’ultima depositaria di tante storie di guerra e di umanità che sembravano venir fuori da un romanzo di Pavese e invece era vita vera. Racconti di personaggi in altri tempi destinati alla normalità ma resi incredibili dalle occorrenze.
Col passare del tempo la zia R. ci vedeva crescere, seguendoci passo passo, allungando a mia madre, di soppiatto dei soldi extra per i nostri compleanni, e continuando a stampare nella memoria ogni piccola informazione che ci riguardasse. Date di esami, risultati, partenze per le vacanze, nomi e volti dei fidanzati che man mano si assecondavano (tanto per intenderci, mio padre ancora adesso si sbaglia). Non si è mai confusa una volta. Nemmeno superati i 90 anni.
La spingeva una genuina e dolce curiosità, insieme all’ansia di vederci finalmente “sistemati”. Io, mia cugina, mio fratello.
Univa a questo interesse protettivo, una forma di gentilezza d’altri tempi. E il linguaggio si adeguava (continuava a dire “cachet” intendendo un analgesico). Dava del lei a qualsiasi ragazzo mi accompagnasse, cercando di capire se questo fosse quello buono, osservandone i modi e la buona educazione, gli interessi, l’affidabilità.
Se la conoscevi, sapevi che potevi conquistarla con una gentilezza. Con una di quelle cose che per molti sono formalità, ma che per lei avevano sempre identificato il senso di una vita per bene.
Sempre felice di ricevere persone, era un po’ timorosa del mondo, e per questo adorava quando era il mondo a passare da lei, un pochino per volta, attraverso gli ospiti che frequentavano la casa.
Da quando, negli ultimi tempi, rimanevo quasi sempre a Milano, si informava su di me attraverso mia madre che la teneva talmente aggiornata che io finivo per non avere mai novità da raccontarle. Nella visita del sabato mattina, nei miei sempre più rari week end lucchesi, scoprivo che non c’era niente che già non sapesse ma a lei piaceva sentir parlare e allora finivo per raccontare lo stesso.
E alla fine il saluto era sempre lo stesso. Vai già via? Quando torni?
Sabbia perdita d’occhio. Mio fratello si concentra sulle montagne alle nostre spalle. E’ domenica pomeriggio e sono a casa.
Io sono tornata. Stavolta però tu non ci sei più.
18 febbraio 2008 alle 11:46
sarà, ma un post che parla così di te è un buon motivo per vivere
18 febbraio 2008 alle 15:53
tutto chiaro.
18 febbraio 2008 alle 19:45
Al compleanno della zia Rosina
il disco suona loro sono lì a giocare
vicino al mare verde come la notte
come le mie cotte
al compleanno della zia Rosina
il treno passa qualcuno ha perso un amico
un altro ritrova la donna
ed io ho già bevuto ed io ho già bevuto
ma proprio adesso ho finito
l’ultimo bicchiere l’ultimo rito
mica l’ho capito che devo ancora bere
il treno non passa ancora eppure io l’aspetto
la canzone più corta di questa anche lei è finita
la vita la vita e Rita s’è sposata
al compleanno della zia Rosina
il mare è calmo ma il mio naso non sente
assapora la mia bocca
l’avventura l’arsura la paura
non ci sarà avventura questo già mi calma
vedo già la mia salma portata a spalle
da gente che bestemmia che ce l’ha con me
povera povera povera la mia cara
le racconterò di Cleme e rideremo insieme
è passato il treno m’ha guardato il treno
s’è scorda–to il treno ma io ho già bevuto
il treno non pas-sa ancora eppure io l’aspetto
la canzone più corta di questa anche lei è finita
la vita la vita e Rita s’è sposata
20 ottobre 2008 alle 00:31
[...] mai più incontrati ma li ha visti il mio amico FDP e me lo ha scritto nell’ultima mail. La zia R. manca e continuerà a mancare, il bar S. pero’ è sempre lì, con gli occhi aperti sul mare, anche [...]