Archivio di agosto 2008

Capitolo 2: Ladri di anime.

sabato 30 agosto 2008

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Il risveglio è avvolto da una zanzariera bianca a forma di baldacchino che circonda tutto il letto. E’ mattina presto e l’aria che entra è fresca e senza suono.
Una fitta rete di tessuto alle finestre impedisce agli insetti di entrare, ma non ai raggi del sole che si appoggiano sugli spartani mobili di legno scuro e tagliano in due il mio libro aperto, con le pagine arricciate dall’umidità.
Le jeep che ci aspetta sembra dell’anteguerra. Il cruscotto appare come un unico blocco nero senza alcun indicatore o spia, il cambio è una leva lunga e sottile in mezzo al nulla.
Ci avviamo e per un attimo mi sembra di andare contromano, prima di ricordarmi che qui la guida è all’inglese. E ha lo stesso sapore coloniale del tè delle cinque che abbiamo preso il giorno prima, guardando la spiaggia bianca che il mare tornava a bagnare dopo la bassa marea della mattina.
Lasciamo la strada principale ed attraversiamo un villaggio, confusi dal tripudio di saluti dei bambini che si precipitano sul ciglio e la decisa freddezza di molti adulti che continuano, sospettosi, le loro attività.
Indecisi se fotografare o meno, vista l’accoglienza incerta, ci lasciamo guidare dal caso, pronti ad abbassare la macchina in caso di reazioni negative.
Le foto ti rubano l’anima, sostiene una vecchia credenza.
E in fondo, è proprio quello che stiamo tentando di fare, dal tetto aperto di queste jeep scassate, agitati dalle buche e bruciati dal sole ormai alto. Rubare l’anima.

La nostra jeep si ferma poco dopo il villaggio, poco lontano dalla nostra meta, ma incapace di ripartire.
Hacuna Matata, come sempre, si affretta a commentare la nostra guida.
Scendiamo, perché davanti a noi, superato qualche albero c’è una distesa sconfinata di sabbia amabilmente disegnata dal vento. Sono linee morbide ma ostinate che si riformano identiche ad ogni soffio d’aria.
Incredibilmente, la jeep, che noi già diamo per persa, riparte e ci porta fino alla foce del fiume.
Mi arrotolo i pantaloni come posso e inizio ad affondare prima con i piedi, poi con le caviglie e infine a metà polpaccio nel fango. Sembrano sabbie mobili. La cosa più difficile è mantenersi in equilibrio perché non sai mai esattamente quanto affonderai e quindi finisci per pendere improvvisamente tutto a destra o a sinistra, cercando disperatamente di non finire per terra, in quella poltiglia. Tutti ci guardiamo I piedi come se tenere lo sguardo fisso sul terreno molliccio aiutasse a rimanere in superficie.
E’ solo quando, acquistata un po’ di sicurezza, rialzo la testa che mi accorgo del motivo che ci ha spinto fino qui.
All’orizzonte, dritto davanti a noi.
Fenicotteri. Rosa. Un mare di fenicotteri rosa.
Ci avviciniamo lentamente, per non spaventarli (e poi provate un po’ a correre nel fango… ). Fino a quando loro decidono che abbiamo superato la distanza di sicurezza e si alzano in volo, per andarsi a posare da un’altra parte.
Noi proviamo a seguirli, tanto più che si sono allontanati da quella melma per tornare su un terreno più sabbioso.
Stavolta ci permettono di avvicinarci di più, fino a quando di nuovo, non superiamo il limite e dispiegano le ali.
Provo a racchiudere il volo dentro il mio obiettivo, poi abbasso la macchina e, con i piedi sempre più piantati per terra, li guardo allontanarsi.

CAPITOLO 1: Roma-Zanzibar-Mombasa-Malindi.

lunedì 25 agosto 2008

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Sono quasi le due di notte a Roma Fiumicino e stiamo aspettando di decollare, con un bagaglio incerto, gli occhi stanchi e la voglia di attraversare il mondo. L’attesa si sbriciola in sette ore di dormiveglia sorvolando l’Italia e l’Africa, con le gambe che si intorpidiscono e la testa in cerca di nuovi appoggi. Poi l’alba illumina improvvisamente il Kilimangiaro e ci lascia lì, appiccicati al finestrino in un imprecisato punto del cielo, a miglia e miglia di altezza da quella che non sembra nemmeno la terra.
Da quando ero piccola, ho sempre avuto questa sensazione in volo. Di guardare un grande, enorme plastico. Come quelli che si trovano nei musei. Finto ma così identico alla realtà nei suoi dettagli più estremi. Una meraviglia di plastica.

Sorvoliamo la nostra destinazione e ce la lasciamo alle spalle, trascinati a Zanzibar da tour operator impegnati a depositare turisti mare-sole-spiaggia con le infradito ai piedi e il costume sotto i pantaloni.
Con lo stesso aereo torniamo a Mombasa e finalmente scendiamo. Quello che troviamo è un minuscolo areoporto internazionale che sembra quasi arrangiato sul momento, al sapore di vacanze e disimpegno.
Hakuna Matata sono le prime parole che impariamo e ce le porteremo per tutto il viaggio. Nessun problema. Almeno per noi, italiani, ricchi Mzungu da cui ricavare qualche scellino per poter respirare almeno un’altra stagione.
E infatti per noi la strada sembra spianata. Anche quando un nostro compagno di viaggio si accende una sigaretta appena fuori dall’areoporto, non immaginando che possa essere proibito fumare all’aria aperta e un agente della polizia prontamente accorso lo vuole arrestare.
Bastano dieci euro, qui lo stipendio di tre giorni di lavoro, a farlo desistere. Hakuna Matata. Buone vacanze.

La strada per Malindi è una serie di buche su cui far saltare poche macchine dalla guida caotica e diversi furgoncini scoloriti e appannati dalla polvere.
Il filo irrespirabile d’aria che entra dai finestrini semi-chiusi e la stanchezza di ore di volo ci fanno cadere inevitabilmente in un sonno strano, scosso da balzi e rumori. Quando riapriamo gli occhi il paesaggio è cambiato. La strada è vuota, dritta davanti a noi, che prosegue come può, tra la terra irregolare e sconfinata che la racchiude. Il risultato è una striscia di asfalto ondulato e sconnesso che sembra adattarsi al terreno invece di piegarlo. Nessuna macchina all’orizzonte. Solo il rumore del nostro mezzo.
E’ ai lati della strada che si svolge tutto.
Sembra un esodo.
C’è un popolo che si sposta lentamente, a piedi. Donne con bambini sulle spalle e qualsiasi tipo di contenitore sulla testa: ceste, borse, teli. Un universo femminile e colorato sorpassato regolarmente da biciclette scassate, guidate da ragazzi cresciuti in fretta che si muovono ondeggiando sotto il carico di preziosissimi secchi d’acqua. Tutti si rannicchiano ancor di più sul ciglio della strada per lasciarci passare. Il fastidioso clacson del nostro autista avverte qualche rara volta chi ancora non si è fatto da parte.
E’ pomeriggio inoltrato e stanno tornando a casa. Alle sei e mezzo non ci sarà più luce.
Siamo all’equatore. 12 ore di luce e 12 ore di buio spaccate. Tutti i santi i giorni. Tutti i mesi dell’anno.
Arriviamo al nostro cottage dopo due ore e mezzo. Un’oasi in mezzo a quell’oceano di polvere. Passiamo di fianco alla piscina, scrutiamo la bianca spiaggia privata e poi contempliamo la vista della nostra veranda. E’ chiaro che ci sono due mondi. Ci serve una bussola. La troveremo.

(foto di A.S.)

Agosto.

giovedì 14 agosto 2008

Toscana, dopo tanto tempo. La mia vecchia camera e le abitudini dimenticate. I piedi distrutti dagli stage di ballo e un centinaio di sensazioni da lasciar depositare. Poi un treno addormentato per Roma e adesso, tra poche ore, il volo per Mombasa. Antimalaria nello zaino e Africa nella testa. A presto…