Premessa: questo post avrei dovuto pubblicarlo tempo fa. Però non riuscivo a finirlo. Continuava a rimanere incompleto, come la serata di stasera. E allora penso che sia esattamente questo il suo posto. In un giorno così in cui mi sembra di aver lasciato tutto a metà. E in cui, soprattutto, mi mancano il mio amico John F. e le sue insostituibili metafore.
Post:
Un’insegna che si illumina è come un flash che ti colpisce all’improvviso.
Se l’insegna è quella del ristorante “La C. 3” davanti al quale ripassi per caso, in macchina, allora quel flash suona come un saluto. Un po’ come l’antifurto della macchina di Moretti in “ Caos Calmo”.
E ti fa ricordare un racconto in sospeso.
Che inizia proprio lì dentro. Davanti a una tovaglia bianca di cotone spesso e resistente, inequivocabilmente quella che mia madre definisce “la tovaglia da ristorante”, due bicchieri identici, dal calice basso e il bordo colorato e un cameriere troppo amichevole, con lo sguardo appeso al mio e una voce precipitosa sulle mie incertezze.
Il menù non esiste, quindi si può far finta di scegliere tra quello che il cameriere (ma poi è un cameriere?) con un po’ di sforzo elenca, perdendo tempo, oppure molto più velocemente ordinare direttamente quello che suggerisce lui. In ogni caso le due strade porteranno allo stesso posto o meglio allo stesso piatto.
Ma io sono arrivata già ubriaca (ah gli aperitivi milanesi) ho poca fame e ho da perdere tutto il tempo che voglio e allora posso anche provare a dire che la carne non la mangio praticamente mai. E posso farlo davanti al mio amico John F. che ordina una bistecca e rimane lì tranquillo, in parte ad osservarmi divertito, in parte a vedere se ho bisogno di aiuto.
Per un attimo lo guardo e penso che mi farebbe sentire a casa anche su Marte.
Vorrei sorridergli. Forse gli sorrido.
Strano come a volte si ricordino solo le intenzioni. E’ che spesso sono più forti dei gesti.
Ma il tipo è ancora in piedi alle mie spalle, con lo sguardo tra il rassegnato e il sospeso, in attesa di un ordine da appuntare sul suo bloc notes a quadretti. Allora con il guizzo improvviso di chi intravede un modo per chiudere la partita, gli propongo in chiave “secondo” un piatto che già voleva portarmi come antipasto ma non era riuscito a piazzare.
Gli si illuminano gli occhi.
Scrive.
Come se improvvisamente gli avessi ordinato una fiorentina. E con una voce più ottimista e rilassata ci chiede del vino.
Adesso sono io a guardare John F., in parte divertita, in parte pronta ad intervenire. Le richieste vengono ovviamente reindirizzate sulla bottiglia che vuole portarci lui e noi docilmente cediamo. Il mio sorriso si trasforma in risata, forse non dovrei bere più. Ci penserò.
Quando arriva la bottiglia è John F. ad assaggiare, in uno dei due bicchieri identici, con un’espressione che non so decifrare e le parole che vengono coperte dal fragore della tavolata di fianco. Un compleanno.
Non posso fare a meno di pensare quanto sia strano questo posto, strana questa cena, strano essere quì a chiedermi da dove iniziare a parlare. John F. è una di quelle persone a cui vorresti raccontare tutto, l’ultimo film che hai visto, il nuovo programma che stai scrivendo, la tua serata ballerina. E sai anche che non avrai il tempo per farlo. Che ti incarterai, che salterai particolari importanti e che ti mancherà qualcosa.
Arriva il cibo.
Una ciotola enorme di insalata va a occupare metà del tavolo. La carne di fianco. E poi un vassoio strabordante di verdure fritte si fa spazio dove può. Lo fisso, spalanco gli occhi.
“Ne ho fatte un po’ di più, così le mangiate tutte e due” se ne esce con entusiasmio il cameriere.
Recupero il mio piattino da antipasto. Ci faccio planare un disco volante di melanzana che inizio a tagliare. Più sono pensierosa e più i pezzi diventano piccoli. E’ così strano riuscire a far combaciare le nostre vite congestionate di impegni e in perenne movimento che io e John F. finiamo anche per stare mesi senza vederci. Pero’ lui è una di quelle persone che sembrano lì, a un metro, le senti quasi respirare, anche quando non ci sono. Riesci a percepire il calore.
Sono rari gli amici così.
Devo essere buffa mentre parlo perché John F. inserisce una serie di battute dietro l’altra. Io ho i riflessi rallentati dal vino e le mie risposte sono piste di lancio per nuove frasette ironiche. Non ho le energie per difendermi e a dire il vero non mi va neanche di farlo.
Bevo il vino e affronto una zucchina.
E’ così John F.
Prende le tue paure e le butta lì, davanti a te, ci gioca, riesce a renderle innocue e quasi affascinanti.
A volte pensi che dovrebbe essere lui a raccontarti del tuo nuovo lavoro, della tua serata ballerina e di tutto il resto.
Non finiremo mai di mangiare tutto e lentamente ci arrendiamo, mentre i festeggiamenti del tavolo vicino coprono di nuovo le nostre parole.
Ci sono frasi stupide che puoi dire una volta sola. Perché se le ripeti rischiano di diventare serie. E lì cominciano le responsabilità.
Forse è l’ora di andare.
Conserverò i racconti, li scriverò forse, adesso ho soltanto voglia di ridere.
Come sempre non riesco a pagare il conto, dopotutto in un anno sono riuscita a offrire solo un drink.
Usciamo e avrei voglia di camminare ma la macchina è vicina. Ci ritroviamo a chiacchierare ancora, stavolta senza camerieri, piatti o torte di compleanno e vedo la macchina avvicinarsi, parcheggiata di fianco al marciapiede. Mentre lui continua a parlare le passiamo di fianco. La superiamo.
E di nuovo, sento il mio viso distendersi in un sorriso.
Musica: The Shins- New Slang