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Appunti di ballo: basi

giovedì 21 febbraio 2008

Ogni tanto mi dimentico di quanto sia incredibilmente liberatorio ballare.
Stasera ho imparato che:

1. anche gli argentini ballano la salsa (e pure bene)
2. non è vero che i pezzi dei gotan project non si possono ballare, basta avere a portata di mano un maestro di tango.
3. contrariamente a ogni previsione I sopracitati maestri di tango non sono così restii a invitare le principianti. Forse perché sanno che qualsiasi cosa riescano a fare sarà soltanto merito loro
4. i tacchi alti sono assolutamente una noia per camminare ma effettivamente per ballare non sono poi così male

E adesso a dormire. Ah, un momento, solo per S. che probabilmente adesso si chiede se sia pazza o no, ne aggiungo ne un’altra.

5. quando incontro il mio coinquilino di ritorno a casa devo moderare i toni allegri (oppure fare maggiore attenzione al mio inglese). Ogni volta che ci incrociamo alle due di notte e mi vede contenta mi chiede se ho bevuto.

Musica: Gotan Project (eheheh) - Diferente

Sabbia a perdita d’occhio.

lunedì 18 febbraio 2008

Sabbia a perdita d’occhio. Quando gli stabilimenti balneari sono chiusi, il mare riguadagna il suo spazio. C’è il sole, ma fa freddo. L’aria è gelida e si infila in ogni piccola fessura lasciata aperta, dentro il cappello, tra la sciarpa e il collo, nelle tasche della giacca.
Chissà se anche i luoghi sono un’eredità, si chiedeva mio fratello due giorni fa.
Magari se lo chiede ancora, mentre affondiamo con le scarpe nella sabbia.

La cosa più difficile di quando se ne va una persona è abituarsi all’idea che non c’è più. Non la vedrai più nei posti dove sei abituata a vederla, non ti dirà più le cose che sei abituato a sentire. E se la persona è una di quelle con cui sei cresciuto, sono tanti i quadri a cui ti sembra improvvisamente che manchi qualcosa.
La naturalezza dell’abbandono, dopo una lunga vita, non rende le cose meno tristi. Vorrei essere come mia madre che si impegna fino in fondo in quello per cui vale la pena ma poi, quando non c’è davvero più nulla da fare, è capace di arrendersi. E’ capace di lasciare andare. Con malinconia, si, ma con quella ragionevolezza che io non posso che guardare con ammirazione.

La zia R. compare nei primi ricordi che io abbia la consapevolezza di avere. Insieme al campino, la casa con la lavatrice che camminava e il gatto bianco e nero sempre incazzato. Nei miei giochi da piccola, insieme a mia cugina, nelle merende al baretto vicino all’ospedale, dopo l’odioso corso di nuoto (meno male che c’erano almeno i biscottini con le cialde) nelle lunghe vacanze al mare, nella casa qui alle mie spalle. Quella in cui io e E. facevamo i tornei di carte fino alle due di notte, da piccole e poi tentavamo di fuggire, quando tutti erano andati a dormire, da adolescenti.
Lei era la memoria storica della famiglia e dopo che mia nonna se ne è andata, l’ultima depositaria di tante storie di guerra e di umanità che sembravano venir fuori da un romanzo di Pavese e invece era vita vera. Racconti di personaggi in altri tempi destinati alla normalità ma resi incredibili dalle occorrenze.
Col passare del tempo la zia R. ci vedeva crescere, seguendoci passo passo, allungando a mia madre, di soppiatto dei soldi extra per i nostri compleanni, e continuando a stampare nella memoria ogni piccola informazione che ci riguardasse. Date di esami, risultati, partenze per le vacanze, nomi e volti dei fidanzati che man mano si assecondavano (tanto per intenderci, mio padre ancora adesso si sbaglia). Non si è mai confusa una volta. Nemmeno superati i 90 anni.
La spingeva una genuina e dolce curiosità, insieme all’ansia di vederci finalmente “sistemati”. Io, mia cugina, mio fratello.
Univa a questo interesse protettivo, una forma di gentilezza d’altri tempi. E il linguaggio si adeguava (continuava a dire “cachet” intendendo un analgesico). Dava del lei a qualsiasi ragazzo mi accompagnasse, cercando di capire se questo fosse quello buono, osservandone i modi e la buona educazione, gli interessi, l’affidabilità.
Se la conoscevi, sapevi che potevi conquistarla con una gentilezza. Con una di quelle cose che per molti sono formalità, ma che per lei avevano sempre identificato il senso di una vita per bene.
Sempre felice di ricevere persone, era un po’ timorosa del mondo, e per questo adorava quando era il mondo a passare da lei, un pochino per volta, attraverso gli ospiti che frequentavano la casa.

Da quando, negli ultimi tempi, rimanevo quasi sempre a Milano, si informava su di me attraverso mia madre che la teneva talmente aggiornata che io finivo per non avere mai novità da raccontarle. Nella visita del sabato mattina, nei miei sempre più rari week end lucchesi, scoprivo che non c’era niente che già non sapesse ma a lei piaceva sentir parlare e allora finivo per raccontare lo stesso.
E alla fine il saluto era sempre lo stesso. Vai già via? Quando torni?

Sabbia perdita d’occhio. Mio fratello si concentra sulle montagne alle nostre spalle. E’ domenica pomeriggio e sono a casa.
Io sono tornata. Stavolta però tu non ci sei più.

Si torna a casa.

venerdì 15 febbraio 2008

Musica: Hugo Diaz- Milonga Triste.

Alle sette e cinque circa

venerdì 15 febbraio 2008

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Il bar dentro gli studi Mtv/LaSette è una specie di limbo.
Luogo di passaggio frettoloso durante il giorno, punto di incontro con gli ospiti e pit stop per un caffè veloce, di sera lentamente si trasforma. I baristi respirano, i banconi si svuotano per lasciar posto ad un accenno di aperitivo e basta un attimo ad ordinare da bere per chi decide di fermarsi.
Sono le sette e qualcosa, la diretta di YN è finita e questo è, appunto, un limbo. Un posto che segna la transizione tra il lavoro che è ormai finito e le nostre case, dove probabilmente crolleremo. E spesso, negli ultimi tempi, è anche il posto dove io e TJ ci fermiamo a parlare, aggiornandoci sulle ultime novità. Lavoriamo insieme ma durante il giorno non riusciamo a scambiare parola. Così ci siamo ritagliate questo piccolo angolo in cui lentamente ci distacchiamo da testi, notizie, video e ricominciamo a prendere dimestichezza con la vita che c’è fuori dagli studi.
E’ un passaggio graduale, ritardato ogni tanto dalla comparsa di qualche personaggio, qualche reduce dalle registrazioni serali il lunedì o il martedì oppure qualche strampalato ospite in cerca di fama il venerdì. Ed è spesso accompagnato dal rituale bicchiere di vino a cui si aggiungono patatine da sgranocchiare e, se va bene, qualche tartina. Quando c’è poco da raccontare finiamo a fantasticare su progetti rigorosamente campati in aria, giochiamo a sliding doors tra bivi e scelte impossibili, oppure ci facciamo domande assurde per poi accorgerci, mentre rispondiamo seriamente, che non sono nemmeno così assurde.
A volte capita anche di rimanere da sole, mentre il barista di turno raccoglie qualche bicchiere in giro, spolvera un po’, sposta bottiglie.
O come stasera che le porte sono già semi-chiuse e ormai è ora di andare quando ci offrono le brioches rimaste da portare a casa.
Così ci facciamo due sacchettini e ci avviamo verso l’uscita.
Ci fermiamo ancora un attimo prima di dividerci, Hey, facciamo qualcosa domani sera?

Musica: Vinicio Capossela- All’una e trentacinque circa.

Distanze.

sabato 9 febbraio 2008

C’è una canzone dei North Pole che è stata reinterpretata recentemente da Syria. L’ho ascoltata live nello studio di YN e ho pensato che, nonostante tutto quello che potessi aspettarmi, non era affatto male.
E allora adesso è entrata nel mio I-Tunes.
In questo momento la sto riascoltando.

Per TJ e le canzoni accennate di notte al telefono, per le domande impossibili di E. e per le mie, inaspettate, risposte, per le citazioni di Frank The Bunny e i viaggi in treno di ETR500. Per gli eroi romantici e un po’ coglioni. Per questi giorni da teenager dove il futuro si ferma a dopodomani.
Se c’è qualcosa da perdonare, me lo perdonerete. Lo so.

Musica: North Pole/Syria- La Distanza

Questioni di punteggiatura.

venerdì 8 febbraio 2008

Avete presente, anni fa, quando il giorno dopo c’era scuola e i tuoi ti dicevano di andare a dormire? Stasera mi sento esattamente così, con nessuna voglia di andare a letto e la sensazione di essere tornata a casa troppo presto. Quindi temporeggio. Mangio due quadretti di cioccolata, bevo due bicchieroni d’acqua, prendo lo sciroppo per la tosse. Apro random il mio I-tunes. S. è ancora fuori, la casa è vuota e per un attimo mi viene la tentazione di chiamare TJ. Poi mi rendo conto che, in effetti è un po’ tardi.

Mi sembra che la giornata stia ancora lì, inconclusa, mentre per addormentarsi bene bisognerebbe sempre avere un “punto a capo” da lasciarsi alle spalle. O almeno, se la frase è particolarmente lunga, un punto e virgola. E invece qui si vedono solo puntini di sospensione, che tra l’altro, ormai sono stra-abusati. E con i puntini di sospensione è proprio una noia addormentarsi.

Cambio musica, sistemo la pila di libri accatastati sul tavolo, faccio una lavatrice. Ma le parole continuano a stare insieme un po’ sbilenche. E’ l’una e mi sembrano le 8 e 30 di sera. Che palle le frasi uscite male.

Ma sì, chiamo TJ.

Due cucchiani da tè, tre volte al dì

giovedì 7 febbraio 2008

sciroppo.jpeg Lo sciroppo per la tosse mi ricorda quando ero piccola.
E’ assurdo pero’: mi ricordo lo sciroppo ma non mi ricordo la tosse.
Anzi, ripensandoci non è assurdo, è fantastico.

P.s. La voce sta tornando e forse è il momento di chiudere questo chiacchieratissimo week end rock’n'roll.

Storie di Babyshambles.

martedì 5 febbraio 2008

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Domenica, intorno alla 2 di notte.

Il disco è ormai alla fine. Sono già sotto le coperte quando mi viene in mente di controllare una cosa. Tento di allungarmi senza uscire dal letto e di afferrare la borsa. Non so come, ma ci riesco. Cerco per un po’ senza vedere e finalmente tiro fuori il booklet di un cd. Lo apro, vedo che dentro c’è un foglio con un disegno. Lo richiudo. Spengo la luce. Devo dormire.
Parte l’ultimo pezzo.
Don’t look at me like that she won’t take you back, said too much been too unkind…

FLASHBACK

Gli eroi romantici ci affascinano da sempre. Follia, sregolatezza e genialità. Tutti attraversiamo un momento in cui non possiamo farne a meno.
Poi, per molti, passa. I sogni sono incredibilmente belli proprio perché sono sogni, i personaggi irresistibili perché sono personaggi. Quelle robe lì non sono vere, ci diciamo mentre andiamo a far la spesa, insomma non sono cose che accadono realmente, sono solo cose che si possono raccontare.
Sono carta stampata, pellicola, musica trasformate in letteratura.
Poi succede che per caso, un giorno, ti dicono che dovresti incontrarne uno. Sì, uno di questi qui. Questi che sembrano stare solo dentro i romanzi. Diresti che non è possibile, ti vogliono far credere ai fantasmi.
Infatti quando all’ultimo momento, domenica, ti comunicano che alla tanto attesa intervista con i Babyshambles, Pete Doherty non si presenterà ti sembra la cosa più normale del mondo.
Vedi, non esiste, pensi.
Quindi lì, nella sala fumatori del Rolling Stone ti concentri su Mick e Adam, chitarrista e batterista della band, che raccontano di una torta in faccia tirata in autogrill, di Mick Jones dei Clash (fatelo suonare, dicono, ma vi prego tenetelo lontano dal mixer), di Shotter’s Nation, dell’Inghilterra, di calcio e della vita rock’n'roll.
Mick non sembra proprio in forma. Sono appena le sei e mezzo, viene da chiedersi come arriverà a sera.
L’intervista comunque è fatta, noi abbiamo finito di lavorare e così ci mettiamo a gironzolare per il locale ancora vuoto, mentre la massa di gente accalcata all’ingresso si fa sentire sempre di più.
C. e M. danno un’occhiata al soundcheck, Y. cerca un posto dove lasciare l’attrezzatura, io e TJ pensiamo che mancano ancora ore al concerto.

Ed è a quel punto che compare, in ritardo come da copione, completamente assente, magrissimo e allampanato. Pete Doherty è sulla porta del Rolling Stones ma in realtà è come se si muovesse davanti a un enorme green back. Mettete voi lo sfondo che volete, io me ne frego, io forse qui non ci sono neanche.
Le camere di AM lo catturano immediatamente, coinvolgendolo in un’intervista improbabile, dove, contrariamente ai piani, finisce lui per decidere a cosa stanno giocando.
E’ tardi, dovrebbe andare, invece rimane seduto sul divano e allora C. gli si siede vicino. Ciao, si presenta. Ciao, risponde lui. E chiacchierano come se fossero al bancone di un bar, a tirar serata. Cosa hai fatto oggi.
Pete è stato in giro, l’Italia un po’ la conosce e la ama. Perché una volta aveva una ragazza a Brescia. Sì, è per quello che gli piace così tanto. Si salutano.
Da dietro continuano a chiamarlo ma lui non sembra aver intenzione di andarsene. Il suo sguardo si illumina improvvisamente, poi si rispegne. Chissà cosa ha visto. E’ come se intorno a lui ci fossero improvvisi piccoli flash.

Sembra tornato completamente nel buio quando io, che sono a due passi, mi avvicino. Gli passo un foglio con le firme di Mick e Adam. Lui mi guarda, prende il foglio e inizia a disegnare.
Io tento di decifrare quei segni: è un cappello.
La voce dei suoi collaboratori si fa più forte. Devono andare.
Lui si gira, li guarda per un attimo, senza dire niente, e poi, senza fretta si rimette a disegnare come se niente fosse. Uno a uno ripassa i tratti già segnati, come se adesso dovesse ricominciare tutto da capo. Poi fa comparire un viso e una sigaretta. Una scritta. E alla fine quella che credo che sia una firma. Lentamente mi riconsegna il foglio. Abbassa lo sguardo e io penso che la sua tremenda fama ormai rimarrà fuori da questo incontro estemporaneo. Ha modi dolci, gentili.
Rialza la testa. Come ti chiami, mi chiede. Sara, gli rispondo. Sara, chiede di nuovo lui. Sì. Mi guarda con quel viso spaesato e stupito che hanno i bambini quando incrociano lo sguardo di una persona sconosciuta. Chissà su quale pianeta si trova. Piacere di conoscerti, mi dice.
Forse avrei dovuto dirlo io, penso, ma ormai è tardi e se lo trascinano via.

Due ore dopo, dalla balconata del Rolling Stone, lo vedo riapparire, vacillante, sul palco mentre con Delivery inizia il suo concerto. I ragazzi, giù, lo adorano. Una serie di cappelli volano sul palco. Lui li raccoglie, li indossa, li lancia.
Guardo TJ di fianco a me, a. dietro di noi, Y. e C che tornano pieni di birre. E penso, per una volta, che non vorrei essere assolutamente da nessun’altra parte.
E’ un rock sporco quello che ascoltiamo, a volte anche un po’ sgangherato, disperato, ma pieno di squarci di vita e la vita si sa è quanto di meno ordinato e preciso ci sia.
Here comes a delivery straight from the heart of my misery. Ti starai distruggendo, perso in una decadente luce di filmatini you tube e giornaletti da sale d’aspetto A song is just a game I’m getting good at cheating at. Oppure starai prendendo tutti in giro dettando le regole del gioco. You can call yourself a killer but the only thing you’re killing is just your time. O forse niente di tutto questo. Ma scrivi dannatamente bene e qualunque cosa tu stia facendo non possiamo non cercare di perdonartela.

Storie di Babyshambles.

lunedì 4 febbraio 2008

coming soon…

Mi Ami (Ancora)

venerdì 1 febbraio 2008

miami.jpg

Mostri innamorati attaccano Milano.

Mr Cave.

mercoledì 30 gennaio 2008

nickcaveblogjpg.jpgNick Cave entra in una camera d’albergo, puntuale, alle 10 di mattina. Strano vederlo con tutta quella luce. Uno come lui pensi che di giorno non esista. Che si rifugi da qualche parte, aspettando il buio. Che compaia solo quando fuori tutto diventa meno nitido. Un po’ come i vampiri.
E in effetti  sembra che sia strano anche per lui, che cerca di far chiudere le tende: “it’s too bright” continua a dire.
Alto, vestito di scuro, occhi glaciali di un blu che non sembra vero. Poche, pochissime parole. Non puo’ non incutere soggezione.
Risponde lentamente alle domande con frasi che tagliano l’aria. Ed è imprevedibile. Non si capisce di cosa parlerà e cosa invece farà morire lì sul nascere, senza neanche provare a formulare una risposta di cortesia.
No, per lui è no. Non lo so è non lo so.
Rimane quell’attimo di silenziosa sospensione prima della risposta in cui non puoi non chiederti chissà se è la domanda giusta.
Si parla di amore, di religione e del loro esatto contrario. Di vivi e di morti, di miracoli. Ma “Dig, Lazarus, Dig” non è cosi biblico come sembra e nemmeno così triste. E’ pieno di gioia, insiste lui. E si farebbe fatica a crederlo se qualsiasi cosa uscita dalla sua bocca non suonasse così perentoria.
Ogni tanto si assesta, scomodo, su una specie di divanetto, vicino alla finestra, al secondo piano di quell’albergo trasformato in esercizio di stile per giovani designer milanesi. E’ una seduta da pescatore, dice.
Si capisce che quello è l’ultimo posto dove vorrebbe essere, un martedì mattina di buon’ora, con miliardi di altre cose per la testa.
Ma la musica è anche controllo. Lui è il primo a dirlo.
Sarà poco emotional, forse, ma molto intelligente.
Difficile distogliere gli occhi da un personaggio così, anche quando sembra infastidito, anche quando chiude drasticamente alcune direzioni di conversazione come se fossero semplicemente strade ghiacciate, su cui sei accidentalmente scivolato ma che sono assolutamente da non percorrere.
Sono le 11 quando se ne va, diretto verso altri doveri.
Scostiamo la tenda, per far rientrare di nuovo la luce piena di una giornata di sole milanese.
Mr Cave. Strana e affascinante creatura.

Sempre in ritardo

martedì 29 gennaio 2008

Cena: 3 ciambelle, 3 dischi di Nick Cave, 3 fogli bianchi.
Domani vi racconterò.

Ci risiamo.

giovedì 24 gennaio 2008

Che delusione.

Il bar S.

giovedì 24 gennaio 2008

E’ vero, c’è un’aria nuova.
Forse è il sole, forse è la temperatura, forse è la calma che, con stupore, sembra circondare la stanza. E fuori c’è addirittura poco traffico.
Insomma una di quelle giornate che ti fa venir voglia di iniziare qualcosa.
E mentre ci pensi, tutta questa luce ti fa venire in mente il riflesso del sole sui tavoli e il tintinnio delle tazzine di un familiare bar sulla spiaggia, quello dove L. va spesso a prendere il caffè.
Da qui è un po’ lontano, come sempre. Come tutto il resto.
Pero’ finché L. continuerà ad andarci, sembrerà ancora a portata di mano. Al di là del monte, che appena sali su ti si apre l’orizzonte, dopo qualche piccolo paese un po’ scolorito dal sole, solo qualche chilometro che ti separa dal mare.