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CAPITOLO 1: Roma-Zanzibar-Mombasa-Malindi.

lunedì 25 agosto 2008

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Sono quasi le due di notte a Roma Fiumicino e stiamo aspettando di decollare, con un bagaglio incerto, gli occhi stanchi e la voglia di attraversare il mondo. L’attesa si sbriciola in sette ore di dormiveglia sorvolando l’Italia e l’Africa, con le gambe che si intorpidiscono e la testa in cerca di nuovi appoggi. Poi l’alba illumina improvvisamente il Kilimangiaro e ci lascia lì, appiccicati al finestrino in un imprecisato punto del cielo, a miglia e miglia di altezza da quella che non sembra nemmeno la terra.
Da quando ero piccola, ho sempre avuto questa sensazione in volo. Di guardare un grande, enorme plastico. Come quelli che si trovano nei musei. Finto ma così identico alla realtà nei suoi dettagli più estremi. Una meraviglia di plastica.

Sorvoliamo la nostra destinazione e ce la lasciamo alle spalle, trascinati a Zanzibar da tour operator impegnati a depositare turisti mare-sole-spiaggia con le infradito ai piedi e il costume sotto i pantaloni.
Con lo stesso aereo torniamo a Mombasa e finalmente scendiamo. Quello che troviamo è un minuscolo areoporto internazionale che sembra quasi arrangiato sul momento, al sapore di vacanze e disimpegno.
Hakuna Matata sono le prime parole che impariamo e ce le porteremo per tutto il viaggio. Nessun problema. Almeno per noi, italiani, ricchi Mzungu da cui ricavare qualche scellino per poter respirare almeno un’altra stagione.
E infatti per noi la strada sembra spianata. Anche quando un nostro compagno di viaggio si accende una sigaretta appena fuori dall’areoporto, non immaginando che possa essere proibito fumare all’aria aperta e un agente della polizia prontamente accorso lo vuole arrestare.
Bastano dieci euro, qui lo stipendio di tre giorni di lavoro, a farlo desistere. Hakuna Matata. Buone vacanze.

La strada per Malindi è una serie di buche su cui far saltare poche macchine dalla guida caotica e diversi furgoncini scoloriti e appannati dalla polvere.
Il filo irrespirabile d’aria che entra dai finestrini semi-chiusi e la stanchezza di ore di volo ci fanno cadere inevitabilmente in un sonno strano, scosso da balzi e rumori. Quando riapriamo gli occhi il paesaggio è cambiato. La strada è vuota, dritta davanti a noi, che prosegue come può, tra la terra irregolare e sconfinata che la racchiude. Il risultato è una striscia di asfalto ondulato e sconnesso che sembra adattarsi al terreno invece di piegarlo. Nessuna macchina all’orizzonte. Solo il rumore del nostro mezzo.
E’ ai lati della strada che si svolge tutto.
Sembra un esodo.
C’è un popolo che si sposta lentamente, a piedi. Donne con bambini sulle spalle e qualsiasi tipo di contenitore sulla testa: ceste, borse, teli. Un universo femminile e colorato sorpassato regolarmente da biciclette scassate, guidate da ragazzi cresciuti in fretta che si muovono ondeggiando sotto il carico di preziosissimi secchi d’acqua. Tutti si rannicchiano ancor di più sul ciglio della strada per lasciarci passare. Il fastidioso clacson del nostro autista avverte qualche rara volta chi ancora non si è fatto da parte.
E’ pomeriggio inoltrato e stanno tornando a casa. Alle sei e mezzo non ci sarà più luce.
Siamo all’equatore. 12 ore di luce e 12 ore di buio spaccate. Tutti i santi i giorni. Tutti i mesi dell’anno.
Arriviamo al nostro cottage dopo due ore e mezzo. Un’oasi in mezzo a quell’oceano di polvere. Passiamo di fianco alla piscina, scrutiamo la bianca spiaggia privata e poi contempliamo la vista della nostra veranda. E’ chiaro che ci sono due mondi. Ci serve una bussola. La troveremo.

(foto di A.S.)

Agosto.

giovedì 14 agosto 2008

Toscana, dopo tanto tempo. La mia vecchia camera e le abitudini dimenticate. I piedi distrutti dagli stage di ballo e un centinaio di sensazioni da lasciar depositare. Poi un treno addormentato per Roma e adesso, tra poche ore, il volo per Mombasa. Antimalaria nello zaino e Africa nella testa. A presto…

Mullholland A.

sabato 26 luglio 2008

Le storie mi affascinano. Da sempre. Forse è per questo che mi piace così tanto scrivere.
Siamo circondati da personaggi e da racconti che se ne stanno nascosti lì, nelle pieghe di una vita reale apparentemente insipida e dimessa.
Questo è il loro grande fascino.
Sono personaggi appena disegnati e le loro storie sono soltanto intraviste, spesso lasciate a metà. Però vale la pena di raccontarle e, a volte, in notti senza sogni, immaginarle.

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Mulholland A.

La strada dove abito a Milano è una via tranquilla poco lontana dal centro. Ex case popolari di anziani milanesi che lentamente si trasformano in graziosi appartamenti di giovani professionisti al primo acquisto o funzionali abitazioni per gli studenti di medicina o del poco distante politecnico.
Nel giro di pochi metri, diviso in piccoli negozietti, c’è tutto quello di cui puoi aver bisogno, dal latte fresco alla stampa di una foto digitale.
Davanti al mio portone, dall’altra parte della strada c’è un locale da aperitivi molto frequentato che la notte crea un viavai di ragazzi e una serie di lamentare da chi vorrebbe il coprifuoco sonoro dopo le 9 di sera. Verso le due il S. chiude, le macchine in doppia fila spariscono insieme alle chiacchiere e improvvisamente il quartiere sembra assopirsi.
E’ in quel momento, esaltati dal silenzio e dal vuoto della strada lasciata definitivamente libera, che i pochi suoni che si sentono sembrano amplificati, ogni singolo gesto acquista un’importanza inaspettata e le persone che compaiono diventano dei fantasmi spuntati dal nulla.

Ogni tanto, in questi momenti di transizione tra un giorno e un altro, mi capita di fermarmi a parlare in macchina con il mio amico John F.
Stare in macchina di notte mi tranquillizza. Non ve lo so spiegare. Lo facevo al liceo quando non c’era altro posto per andare ed era lì che venivano fuori le frasi più assurde e le risposte più importanti, le risate più fragorose e i silenzi più belli.
Mi è rimasta addosso quella cosa lì, da ragazzina forse.
Alla fine è una specie di non luogo e a me sfumare un po’ i contorni è sempre piaciuto.
Qualche sera fa, appunto, ero in macchina con il mio amico John F. Le due passate da poco, la strada ormai svuotata, praticamente deserta
Io come al solito mi sto aggrovigliando nella difficoltà di un discorso semplice, quando arriva una macchina a gran velocità, frena facendo fischiare le gomme sull’asfalto e si ferma proprio davanti a noi. Si apre la portiera del passeggero, una ragazza esce di corsa e si infila in un portone. La macchina sgomma di nuovo e riparte. Dopo poco torna il silenzio più completo.
Io mi accorgo di avere ancora il respiro in gola.
Di giorno, nel traffico, avrei solo pensato, di fretta, ma come cazzo guida questo. Di notte, con il buio e l’assenza di rumori, mi sono spaventata a morte. Ma non solo. Sono anche diventata curiosa.
Guardo John F. che capisce e mi dice “Hanno litigato.”
Lui ha questo senso pratico che a me manca completamente, soprattutto nel capire le persone. A lui basta un secondo, a me non basta una vita. Certo, anche lui fa i suoi errori, ma è come un disegnatore che con tre tratti costruisce un oggetto. Ecco, lui nelle persone e nelle situazioni riesce a vedere subito quei tre tratti lì. D’accordo, poi c’è tutto il resto ma lo invidio un po’ perché io, tra le mille linee su cui poso gli occhi, al primo colpo non li becco mai.
Continuiamo a chiacchierare, quando arriva un’altra macchina. La strada è vuota, qualsiasi movimento è un evento. Ma questa arriva lentamente, mette la freccia e si ferma davanti al cancello di fronte a noi, dall’altra parte della strada. Sempre molto lentamente scendono una signora e una ragazzina. Poi compare anche il guidatore, un signore di mezza età. Mentre le saluta lascia la macchina accesa anche se non sembra avere alcuna fretta. Al contrario, quasi temporeggia. Sarà una famiglia, penso. Strano vedere una famigliola rientrare alle 2 e 30 di notte. Poi lui risale in macchina, aspetta che loro si siano richiuse il cancello alle spalle e, sempre lentamente, riparte.
Guardo John F. , di nuovo, che stavolta azzarda di più: “Sono divorziati. Lui le ha appena riaccompagnate”
Mmm. in effetti potrebbe tornare. Stanotte però mi sembra tutto strano.
Come la musica che sto ascoltando sprofondata nel sedile della macchina. Ma questa è un’altra storia.
John F. è rimasto qualche minuto in piedi, fuori, appoggiato al finestrino e mentre rientra arriva di nuovo la macchina della sgommata di prima. Stavolta la guida è più o meno normale. Accosta davanti a noi, esattamente come venti minuti fa.
“Lei l’ha chiamato”.
John F. mi spiega di averla vista poco prima, dentro al portone con il cellulare.
Vedo la ragazza salire in macchina con lui.
Forse avevano litigato davvero… E’ che stanotte sembra tutto senza senso.
“Guarda, guarda” fa John F. “è tornata anche l’altra macchina”.
“Ma sei sicuro che sia quella?”
In effetti è vero, è tornata anche la macchina del signore di mezza età, che stavolta pero’ si è fermata in fondo alla strada. Lui non fa niente. Rimane dentro. Sembra aspettare qualcosa che non arriva.
“Cosa cavolo aspetta?”
La risposta non c’è. Il tizio rimane nell’auto. Non tenta di parcheggiare, non tenta di uscire. Rimane lì, in seconda fila, alla fine della strada.
Io e John F. abbiamo lo sguardo fisso sul cancello dietro al quale sono scomparse poco prima la donna e la ragazzina. Ma non succede niente.
Ad un certo punto la macchina, sempre senza fretta, riparte. Ci passa davanti e si allontana lungo la strada fino a quando la perdiamo di vista.
Ci guardiamo.
Questa volta la storia è più complicata. Si può immaginare di tutto. Storie d’amore, di rapimenti, di traffici illegali. Ok ok sto esagerando. Tre tratti, solo tre tratti. E’ che non ci riesco proprio. Forse ha solo dimenticato qualcosa. Forse non sono nemmeno una famiglia.
Le linee forti scolorano, le figure sbiadiscono.
Lui sta scomparendo.
Ha bisogno di una storia.
E allora gliela scriveremo. Sono solo le tre, in una deserta e silenziosa Mulholland A.

Musica: Inedita. Almeno fino a quando John F. non cambierà idea.

Backstage

giovedì 3 luglio 2008

Solo per a. …

dietro le quinte

Verona, qualche settimana fa.

martedì 1 luglio 2008

http://www.youtube.com/watch?v=yDNtdRk5uvg

Heineken Jammin’ Festival 2008

venerdì 20 giugno 2008

Parco San Giuliano di Venezia. Gli aerei volano bassi. Sono arrivata ieri sera ed è come se non me ne fossi mai andata. Il caldo, le zanzare, la corsa all’ultima intervista. Tutto sembra identico allo scorso anno e invece tutto è così diverso.

La C. 3

venerdì 13 giugno 2008

Premessa: questo post avrei dovuto pubblicarlo tempo fa. Però non riuscivo a finirlo. Continuava a rimanere incompleto, come la serata di stasera. E allora penso che sia esattamente questo il suo posto. In un giorno così in cui mi sembra di aver lasciato tutto a metà. E in cui, soprattutto, mi mancano il mio amico John F. e le sue insostituibili metafore.

restaurant.jpeg

Post:
Un’insegna che si illumina è come un flash che ti colpisce all’improvviso.
Se l’insegna è quella del ristorante “La C. 3” davanti al quale ripassi per caso, in macchina, allora quel flash suona come un saluto. Un po’ come l’antifurto della macchina di Moretti in “ Caos Calmo”.
E ti fa ricordare un racconto in sospeso.
Che inizia proprio lì dentro. Davanti a una tovaglia bianca di cotone spesso e resistente, inequivocabilmente quella che mia madre definisce “la tovaglia da ristorante”, due bicchieri identici, dal calice basso e il bordo colorato e un cameriere troppo amichevole, con lo sguardo appeso al mio e una voce precipitosa sulle mie incertezze.
Il menù non esiste, quindi si può far finta di scegliere tra quello che il cameriere (ma poi è un cameriere?) con un po’ di sforzo elenca, perdendo tempo, oppure molto più velocemente ordinare direttamente quello che suggerisce lui. In ogni caso le due strade porteranno allo stesso posto o meglio allo stesso piatto.
Ma io sono arrivata già ubriaca (ah gli aperitivi milanesi) ho poca fame e ho da perdere tutto il tempo che voglio e allora posso anche provare a dire che la carne non la mangio praticamente mai. E posso farlo davanti al mio amico John F. che ordina una bistecca e rimane lì tranquillo, in parte ad osservarmi divertito, in parte a vedere se ho bisogno di aiuto.
Per un attimo lo guardo e penso che mi farebbe sentire a casa anche su Marte.
Vorrei sorridergli. Forse gli sorrido.
Strano come a volte si ricordino solo le intenzioni. E’ che spesso sono più forti dei gesti.
Ma il tipo è ancora in piedi alle mie spalle, con lo sguardo tra il rassegnato e il sospeso, in attesa di un ordine da appuntare sul suo bloc notes a quadretti. Allora con il guizzo improvviso di chi intravede un modo per chiudere la partita, gli propongo in chiave “secondo” un piatto che già voleva portarmi come antipasto ma non era riuscito a piazzare.
Gli si illuminano gli occhi.
Scrive.
Come se improvvisamente gli avessi ordinato una fiorentina. E con una voce più ottimista e rilassata ci chiede del vino.
Adesso sono io a guardare John F., in parte divertita, in parte pronta ad intervenire. Le richieste vengono ovviamente reindirizzate sulla bottiglia che vuole portarci lui e noi docilmente cediamo. Il mio sorriso si trasforma in risata, forse non dovrei bere più. Ci penserò.
Quando arriva la bottiglia è John F. ad assaggiare, in uno dei due bicchieri identici, con un’espressione che non so decifrare e le parole che vengono coperte dal fragore della tavolata di fianco. Un compleanno.
Non posso fare a meno di pensare quanto sia strano questo posto, strana questa cena, strano essere quì a chiedermi da dove iniziare a parlare. John F. è una di quelle persone a cui vorresti raccontare tutto, l’ultimo film che hai visto, il nuovo programma che stai scrivendo, la tua serata ballerina. E sai anche che non avrai il tempo per farlo. Che ti incarterai, che salterai particolari importanti e che ti mancherà qualcosa.
Arriva il cibo.
Una ciotola enorme di insalata va a occupare metà del tavolo. La carne di fianco. E poi un vassoio strabordante di verdure fritte si fa spazio dove può. Lo fisso, spalanco gli occhi.
“Ne ho fatte un po’ di più, così le mangiate tutte e due” se ne esce con entusiasmio il cameriere.
Recupero il mio piattino da antipasto. Ci faccio planare un disco volante di melanzana che inizio a tagliare. Più sono pensierosa e più i pezzi diventano piccoli. E’ così strano riuscire a far combaciare le nostre vite congestionate di impegni e in perenne movimento che io e John F. finiamo anche per stare mesi senza vederci. Pero’ lui è una di quelle persone che sembrano lì, a un metro, le senti quasi respirare, anche quando non ci sono. Riesci a percepire il calore.
Sono rari gli amici così.
Devo essere buffa mentre parlo perché John F. inserisce una serie di battute dietro l’altra. Io ho i riflessi rallentati dal vino e le mie risposte sono piste di lancio per nuove frasette ironiche. Non ho le energie per difendermi e a dire il vero non mi va neanche di farlo.
Bevo il vino e affronto una zucchina.
E’ così John F.
Prende le tue paure e le butta lì, davanti a te, ci gioca, riesce a renderle innocue e quasi affascinanti.
A volte pensi che dovrebbe essere lui a raccontarti del tuo nuovo lavoro, della tua serata ballerina e di tutto il resto.

Non finiremo mai di mangiare tutto e lentamente ci arrendiamo, mentre i festeggiamenti del tavolo vicino coprono di nuovo le nostre parole.
Ci sono frasi stupide che puoi dire una volta sola. Perché se le ripeti rischiano di diventare serie. E lì cominciano le responsabilità.
Forse è l’ora di andare.
Conserverò i racconti, li scriverò forse, adesso ho soltanto voglia di ridere.
Come sempre non riesco a pagare il conto, dopotutto in un anno sono riuscita a offrire solo un drink.
Usciamo e avrei voglia di camminare ma la macchina è vicina. Ci ritroviamo a chiacchierare ancora, stavolta senza camerieri, piatti o torte di compleanno e vedo la macchina avvicinarsi, parcheggiata di fianco al marciapiede. Mentre lui continua a parlare le passiamo di fianco. La superiamo.
E di nuovo, sento il mio viso distendersi in un sorriso.

Musica: The Shins- New Slang

Musica Importante A Milano

domenica 8 giugno 2008

miami.jpeg  E’ giugno, è tempo di Miami, il festival della musica bella e dei baci. Ed è come un ritrovo. Sono stanchissima ma perfettamente lucida, TJ invece si è già persa. Per me è come guardare tutto stranamente in 3D, come se non lo fosse mai stato.
Dopo due giorni di riprese di Ultrasounds siamo distrutte, ma felici di rincontrare più o meno tutti, verificare che C. sopravvive, che a. ha cambiato casa (ma il divano c’è) che M., in gradita versione con baffi, è contento del suo nuovo lavoro.
Sorridere a qualcuno che forse non ci riconosce e ascoltare di nuovo gli Zen Circus che periodicamente tornano ad accompagnare le nostre serate.
TJ si appoggia a me. Le accarezzo i capelli. La mia “sciacquetta” preferita.
Forse piove anche stasera, ma ormai ha poca importanza.
Siamo qui.
TJ ha uno slancio di sincerità e commenta i personaggi che ci circondano, poi si rende conto ma è troppo tardi. Oddio.
Ridiamo.
Dovevamo andare via un’ora fa…

P.s.

Per raggiungere l’ingresso del MI AMI (Magnolia, Idroscalo) occorre essere presi bene e farsi portare nel punto esatto di latitudine 45.46539 e longitudine 9.285088. Impossibile perdersi. Facile innamorarsi.

Passeggio con l’ombrello.

domenica 1 giugno 2008

umbrella_in_rain.jpg E’ quasi l’una quando torno a casa. Di fretta. Piove, di nuovo. Piove da cinque giorni. Nessun parcheggio sotto casa, la macchina è finita a mezzo chilometro di distanza. Giacca di jeans usata come ombrello, faccio slalom tra le pozzanghere.
Lavorato fino a tardi, saltata per l’ennesima volta la cena con T. e S. , guidato nel traffico per 40 minuti, raggiunti per miracolo gli After che suonavano a Radio Popolare.
Sono finalmente sul marciapiede di casa quando incrocio un tipo. Mi accorgo che ha detto qualcosa solo quando lui è già alle spalle. Non ho capito.
E allora faccio una cosa tanto naturale quanto impensabile per me, all’una di notte, da sola, a Milano, sotto la pioggia. Qualcosa di sconsideratamente immediato.
Mi giro.
“Cosa?”
Lui ripete.
“Passeggio”. Sorride con tranquillità. “Passeggio con l’ombrello”.
E va.
Adesso voi penserete che questo avesse qualche rotella fuori posto.
O che fosse un vecchio insonne e un po’ svampito.
Quasi l’ho pensato anch’io. Perché quando mi è passato davanti mica l’ho visto. L’ho visto dopo, quando ormai non c’era più e di fronte a me c’era solo il cancello di casa e nell’aria una specie di strana allegria.
Era un ragazzo. Maglione, capelli ricci. E sopra di lui un grande ombrello scuro.
Mentre cerco le chiavi mi chiedo da dove arrivi quell’immagine. Quando ho avuto il tempo di registrarla. Eppure è lì.
Vi è mai capitato di ricordare particolari a cui vi sembra di non aver prestato attenzione? Ad un certo punto, semplicemente sono davanti a voi, saltati fuori chissà da dove.

Piove da giorni, un ragazzo passeggia con l’ombrello, all’una di notte, sotto casa mia. Non ha la giacca. Gli esce una frase che potrebbe dire un bambino. E per un momento ripara anche me.

Tell him, tell him right now.

domenica 25 maggio 2008

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Ho finito i dvd di Ally Mc Beal, Larry non è più tornato e sono rimasti solo ricordi e persone da salutare.
Un po’ mi dispiace, è come non avere più, improvvisamente, qualcuno che ti fa compagnia prima di dormire. Che ti tranquillizza con le sue stramberie, intercetta i pensieri che girano nella tua testa e li avvolge in una pellicola inoffensiva, prendendo in giro le tue paranoie per poi farle sciogliere, lentamente, nel sonno.
Adesso dovrò cambiare theme song e anche psicologo.
Ah, già, dimenticavo, non ne ho ancora uno.

Musica: The Exciters- Tell Him

Cambi di programma.

giovedì 15 maggio 2008

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Quando S. mi dice che all’ultimo momento i piani sono cambiati e dobbiamo andare a MdR  lì per lì mi sembra che ci sia qualcosa che non torni. Mi arrivano spezzoni di parole tipo biglietto mare pineta videoclip.
“Ci sono problemi se andiamo in treno?”.
Figurati. Meglio il treno, certo. Andiamo per lavorare, meglio arrivare riposate.
“Allora poi do un’occhiata agli orari. Chissà quanto ci vuole”.
“Un po’” gli ripondo io. Che razza di risposta è ‘un po’.
S. si rimette a lavorare.
E io, mentre accendo il computer, ho tutto il tempo di pensare che l’ultima volta che mi sono fatta quella tratta in treno era mattina presto, in piena estate e faceva freddo. Era il mese più freddo dell’anno, come direbbero i Perturbazione, di tanto tempo fa.
C’erano le località di mare che scorrevano dal finestrino, con i loro vacanzieri raccolti intorno a un mucchietto di borse, zaini, trolley. E c’era un rumore unico che ne univa insieme mille. Voci, annunci, suonerie, porte, freni. Sotto una luce decisa, di quelle che non imbrogliano nessuno, colori troppo brillanti filtrati da lenti scure e rassicuranti. E’ incredibile vedere il mondo muoversi così freneticamente alle 7 di mattina. Ti viene da stringere qualcosa e rimanere fermo. Immobile lo ero già, ma non avrei mai saputo che cosa stringere.
Quando scappi da qualcosa, l’ideale è continuare a correre, ma se hai ancora le gambe troppo intorpidite allora ti conviene saltare su qualcosa che si muove. Io ero saltata su un treno. E’ sempre meglio di niente. L’importante è continuare ad andare, anche se ti sembra che ti manchi il fiato. Perché a partire son buoni tutti, è non fermarsi la parte difficile. Le partenze si bruciano in un attimo, sono i viaggi ad aver bisogno di costanza.
La lentezza. Ero immobile e tutto quello che ripudiavo era la lentezza.
A distanza di anni, le cose ininfluenti sono diventate finalmente senza peso, le stupidaggini si sono rivelate davvero delle sciocchezze e le parole senza spessore si sono perse nell’aria.
C’è solo una cosa che ancora, ripensandoci, mi fa tenerezza. Ed è l’immagine di quella persona seduta lì sul treno, con il telefono stretto nelle mani, perché non c’è niente altro da stringere, che svolge il suo compito. Tornare a casa. E lo fa perché lo deve fare. Non si chiede altro, è più semplice così. Compito. Svolgimento.
A Bologna scende, compra da mangiare, si siede vicino ai binari e aspetta l’altro treno.
Vorrei fermarla, dirle qualcosa, sorriderle, portarla ad una lezione di tango, farle chiudere gli occhi e vedere le luci di Manhattan.
Ma ormai non esiste più.

Musica: Afterhours (perché tutto comincia più o meno qua)- Dentro Marilyn

I Milanesi ammazzano il sabato

mercoledì 7 maggio 2008

Sì, lo so. Sono giorni che non scrivo. E’ che ogni tanto mi prendono degli improvvisi attacchi di concretezza, quasi a credere che il mondo, là fuori, in certi momenti vada vissuto un po’  così, senza pensarci troppo su.
E’ bello qualche volta, provare a non capire.
Però ho tante storie da raccontarvi e tanti personaggi da presentarvi: il cameriere del ristorante “La C.” (ma poi, era un cameriere?), i giocatori di carte del circolino arci (come fa a esistere un posto così al centro della milano?), due amanti che si lasciano il giorno della bomba di piazza fontana e si ritrovano negli anni novanta (questa ve l’avevo promessa).
A loro andrà la prossima notte insonne.
Nel frattempo…

Musica: Afterhours- I Milanesi ammazzano il sabato.

Buonanotte

mercoledì 30 aprile 2008

A volte torni a casa e ti senti un po’ stupida. Ma non abbastanza.
Dovresti addormentarti perché è tardi e domattina ti devi alzare presto ma ti rendi conto che è proprio quel pizzico di sciocchezza che ti manca a non farti dormire.
Allora metti su un cd. E poi un altro.
Vorresti che fosse già domani perché ti sembra di aspettare qualcosa e non sai nemmeno tu che cosa è. Perché in effetti non succederà un bel niente.
E allora ti perdi nei suoni… I hear in my mind all these voices I hear in my mind all these words I hear in my mind all this music… and it breaks my heart.

Disco 1: Regina Spektor – Begin To Hope

Amor Fou

sabato 26 aprile 2008

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Un semaforo rosso è sempre una buona occasione per cambiare cd.
Cerco di gestire una serie di dischi catapultati fuori dal cruscotto con le copertine scambiate e i nomi quasi cancellati, quando mi sento chiamare.
Metto nell’autoradio quello che cercavo, illuminata da un particolare che mi ricorda che è già passato troppo tempo, quando mi sento chiamare ancora.
Realizzo che è il tipo della macchina di fianco. Parla proprio con me.
Abbasso il finestrino pensando che voglia le solite indicazioni stradali che io non sono capace di dare. Il senso dell’orientamento non fa parte del mio dna, ormai mi sono arresa. Invece lui mi fa: che ascolti?
Lo guardo e penso che forse ha seguito un corso di abbordaggio per corrispondenza. Poi penso, pero’, che questa città ci rende strani e un po’ di ghiaccio ce lo mette addosso davvero. E poi, ancora, che, poveretto, è capitato male. Quasi, mi dispiace.
“Stavo ancora scegliendo”. Alla fine ha una faccia simpatica, gli evito una brutta figura.
Sorrido e mi volto. Cortese fine di conversazione.
Lui insiste. “Dico, il cd che stavi cercando”.
Però.
Questo semaforo sta iniziando a durare un po’ troppo.
Sempre gentile, mi esce la frase sbagliata: “ Non credo che tu li conosca…”. E’ ovvio che lui adesso ribatte. Pero’ sbaglia di nuovo, perché lo fa con quel tono da hey baby sono un esperto di musica: “Non ti preoccupare. Spara!”
Verde.
Grazie al cielo.
Amor Fou, gli grido, mentre corro via appena in tempo per vedere una faccia un po’ delusa e sentire un accenno di qualcosa come “Ah, non li conosco”.
E’ un peccato perché è un disco bellissimo. Con una storia che vale la pena di raccontare. Quelle storie d’amore in cui ti imbatti per caso ma che ti rimangono in mente perché c’è dentro tanta di quella vita da riempire un po’ anche la tua, in giornate come questa.
Ve la racconterò, promesso.
Al prossimo semaforo.

In macchina: Amor Fou- Periodo Ipotetico