CAPITOLO 1: Roma-Zanzibar-Mombasa-Malindi.
lunedì 25 agosto 2008Sono quasi le due di notte a Roma Fiumicino e stiamo aspettando di decollare, con un bagaglio incerto, gli occhi stanchi e la voglia di attraversare il mondo. L’attesa si sbriciola in sette ore di dormiveglia sorvolando l’Italia e l’Africa, con le gambe che si intorpidiscono e la testa in cerca di nuovi appoggi. Poi l’alba illumina improvvisamente il Kilimangiaro e ci lascia lì, appiccicati al finestrino in un imprecisato punto del cielo, a miglia e miglia di altezza da quella che non sembra nemmeno la terra.
Da quando ero piccola, ho sempre avuto questa sensazione in volo. Di guardare un grande, enorme plastico. Come quelli che si trovano nei musei. Finto ma così identico alla realtà nei suoi dettagli più estremi. Una meraviglia di plastica.
Sorvoliamo la nostra destinazione e ce la lasciamo alle spalle, trascinati a Zanzibar da tour operator impegnati a depositare turisti mare-sole-spiaggia con le infradito ai piedi e il costume sotto i pantaloni.
Con lo stesso aereo torniamo a Mombasa e finalmente scendiamo. Quello che troviamo è un minuscolo areoporto internazionale che sembra quasi arrangiato sul momento, al sapore di vacanze e disimpegno.
Hakuna Matata sono le prime parole che impariamo e ce le porteremo per tutto il viaggio. Nessun problema. Almeno per noi, italiani, ricchi Mzungu da cui ricavare qualche scellino per poter respirare almeno un’altra stagione.
E infatti per noi la strada sembra spianata. Anche quando un nostro compagno di viaggio si accende una sigaretta appena fuori dall’areoporto, non immaginando che possa essere proibito fumare all’aria aperta e un agente della polizia prontamente accorso lo vuole arrestare.
Bastano dieci euro, qui lo stipendio di tre giorni di lavoro, a farlo desistere. Hakuna Matata. Buone vacanze.
La strada per Malindi è una serie di buche su cui far saltare poche macchine dalla guida caotica e diversi furgoncini scoloriti e appannati dalla polvere.
Il filo irrespirabile d’aria che entra dai finestrini semi-chiusi e la stanchezza di ore di volo ci fanno cadere inevitabilmente in un sonno strano, scosso da balzi e rumori. Quando riapriamo gli occhi il paesaggio è cambiato. La strada è vuota, dritta davanti a noi, che prosegue come può, tra la terra irregolare e sconfinata che la racchiude. Il risultato è una striscia di asfalto ondulato e sconnesso che sembra adattarsi al terreno invece di piegarlo. Nessuna macchina all’orizzonte. Solo il rumore del nostro mezzo.
E’ ai lati della strada che si svolge tutto.
Sembra un esodo.
C’è un popolo che si sposta lentamente, a piedi. Donne con bambini sulle spalle e qualsiasi tipo di contenitore sulla testa: ceste, borse, teli. Un universo femminile e colorato sorpassato regolarmente da biciclette scassate, guidate da ragazzi cresciuti in fretta che si muovono ondeggiando sotto il carico di preziosissimi secchi d’acqua. Tutti si rannicchiano ancor di più sul ciglio della strada per lasciarci passare. Il fastidioso clacson del nostro autista avverte qualche rara volta chi ancora non si è fatto da parte.
E’ pomeriggio inoltrato e stanno tornando a casa. Alle sei e mezzo non ci sarà più luce.
Siamo all’equatore. 12 ore di luce e 12 ore di buio spaccate. Tutti i santi i giorni. Tutti i mesi dell’anno.
Arriviamo al nostro cottage dopo due ore e mezzo. Un’oasi in mezzo a quell’oceano di polvere. Passiamo di fianco alla piscina, scrutiamo la bianca spiaggia privata e poi contempliamo la vista della nostra veranda. E’ chiaro che ci sono due mondi. Ci serve una bussola. La troveremo.
(foto di A.S.)