G. smette di ridere e mi guarda dritta negli occhi.
“Adesso raccontami qualcosa di triste”.
“Cosa?”
“Quello che vuoi. Inventatelo. E’ il tuo lavoro no?”
In questi anni ho scoperto che la gente ha le idee più disparate su quello che potrebbe essere il mio lavoro. Dallo scrivere i biglietti di natale alla frase per una promessa di matrimonio, dall’analisi della comunicazione politica di un partito all’idea per una pubblicità di profumi. Passando per qualsiasi tipo di sceneggiatura e ovviamente qualsiasi genere di sms.
In parte, effettivamente, corrisponde a verità e forse è quello che mi piace tanto del mio lavoro. Che alla fine, nemmeno io so cosa è.
“Come vuoi”.
G. si versa dell’altro tè e si mette comoda, tentando di ritornare seria. Poi precisa.
“Non voglio proprio un racconto, voglio una sensazione”.
“Va bene. Allora… Anni, secoli fa, stavo tornando a casa in treno. Seduta nel corridoio di un vagone strapieno, accovacciata sopra la valigia, lo zaino appoggiato di fianco. Tornavo in toscana in uno dei miei innumerevoli viaggi da semi-pendolare e, come sempre, stavo leggendo. Un classicone, uno di quei libri che nell’infinita libreria di mia madre non poteva mancare: Per chi suona la campana. L’hai letto?
“No. Di chi è che non mi ricordo?”
“Hemingway”.
“Giusto”
“Allora stavo lì, ero quasi alla fine. Ero in uno di quei momenti in cui cominci a capire come andrà a finire la storia. Mancano poche pagine e non riesci a smettere di leggere ma allo stesso tempo c’è qualcosa che ti frena. Perché lo vedi che nell’aria c’è qualcosa di inevitabile. Lo senti.”
“C’è una storia d’amore?”
“C’è la guerra e c’è anche una storia d’amore.”
“Ecco… e lui parte. Sono sicura. Partono tutti”
“In un certo senso… Però dice una di quelle frasi che ti rimangono in mente. Una di quelle frasi tremende. E incredibilmente belle.”
“Cioè?”
“La situazione è abbastanza tragica. Uno chiede all’altro di andarsene. Di andarsene per tutti e due.
“E dice…”
“Finche ci sarà uno di noi ci saremo tutti e due”.
…
…
“Va a finire male immagino.”
“Non è come va a finire, ma come senti che andrà a finire, prima che finisca.
Ogni tanto guardi le storie, a volte dall’interno, a volte dall’esterno, e lo vedi già come andranno a finire. Perché non c’è nessun lieto fine possibile neanche a volerlo costruire. Hai ancora una serie di pagine, ma nessuna via d’uscita. Sei lì, sul tuo treno, o sul divano di casa tua o per strada e lo sai. Però continui ad avere quel disperato desiderio che in fondo, per qualche incredibile motivo, vada tutto bene.”
“E’ vero… Perché?”
“E’ l’illusione delle pagine che ti aspettano. Perché non è ancora finita.”
G. solleva senza pensarci la tazza ormai vuota.
“Mmm… E tu che hai fatto sul treno?”
“Volevi una sensazione, non un racconto.”
“Ok… ok… Hai ragione. Ma già che ci siamo… Che hai fatto?”
“Ho finito il libro una stazione prima della mia. L’ho messo nello zaino, l’ho richiuso e sono scesa dal treno. ”
“Ah. Ecco adesso sono davvero triste. Non riderò mai più…”
“Non è vero… Quando ti capiterà qualcosa di veramente divertente riderai di nuovo.”
“E’ sempre Hemingway che lo dice?”
“No. Sex And The City”.
G. sorride. “Un altro tè?”
“Ma sì.”