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Gomma a terra.

sabato 12 dicembre 2009

pneumatico

Mio fratello è una delle persone più razionali che Dio o chi per lui abbia messo su questa terra. Sarebbe capace di provare a spiegare come risolvere un’equazione differenziale a uno che ha fatto a malapena le medie.
Io, come al solito, lo chiamo per qualsiasi tipo di problema anche se è a 300 km di distanza. Perché lo so che anche da laggiù qualcosa di buono me lo dirà.

- Hey!
- Hey…
- Ho bucato una gomma.
- Ah. Quando?
- L’altra sera. Ero nervosa, andavo un po’ veloce… e ho preso una buca.
- Ma è proprio a terra?
- Sotto sì, sopra no.
(sento mio fratello che muore dal ridere)
Dai… mi sono spiegata male…
(continua a ridere, non ce la fa)
Insomma, come faccio a mettere la ruota di scorta?
- Non l’hai mai fatto?
(torna finalmente serio)
- No.
- E ti pareva.
- Quindi?
- Quando vieni qui per Natale ti insegno.
- E ora?
- Eh.
- Eh.
- E ora fai gli occhioni.

Che fatica. E’ mattina presto, ho dormito male, la macchina è inutilizzabile e mio fratello mi dice che devo fare gli occhioni.
Non so se in questo momento mi pesa di più mettermi un vestito decente e truccarmi oppure provare a sorridere.
Alla mega-officina che è nella piazza dietro l’angolo arrivo dopo pochi minuti a piedi. Il freddo mi entra negli occhi facendomeli quasi lacrimare. Occhi lucidi, perfetto.
Peccato che appena arrivo mi rendo conto di aver davanti un pettinatissimo centro-gomme con una vetrata da far invidia ai negozi del centro. E al di là del vetro, ahimé, una donna. Ma io dico. Dove sono finite le care, vecchie, sporche officine di una volta., dove gli unici esseri femminili sono appiccicati alla carta di un calendario di anni fa, fermo da secoli sul mese di agosto? Beh, dopo tutto siamo a Milano e qui il grasso non sporca e i pneumatici scintillano in attesa dell’happy hour.
Ovviamente vengo rimbalzata da una serie di “abbiamo troppo lavoro” bla bla bla.
E ti pareva.
Torno indietro e mi rivolgo all’unica persona che può darti una mano quando proprio non c’è più niente da fare, il simbolo dell’arte dell’arrangiarsi, il prontuario dei consigli per ogni emergenza: la portinaia.
E lei, come i saggi delle migliori favole, mi illumina: c’è una piccola officina proprio dietro la nostra strada, sono simpatici, vedrai che ti aiutano.
Così con gli occhi lucidi che mi hanno trasformato in un panda, facendo colare tutto il fastidiosissimo mascara (un consiglio per le fanciulle: nei momenti critici puntate sempre sul rossetto, è più sicuro) mi avvio.
L’officina è proprio piccolina, trasandata quanto basta e gestita da due personaggi che sembrano usciti dal mio blog. Un vecchio signore anziano, in tuta da lavoro, che discute affabilmente con una passante e un ragazzo poco più che ventenne, serio e composto, assorbito dal suo lavoro, ma con le mani meravigliosamente sporche.
Sarò pur sempre una ragazza di provincia, ma mi sento a casa.
Alcune ore dopo ho la mia bella gomma nuova, pagata un prezzo onestissimo, e tutte le altre perfettamente gonfie. Per poco non mi cambiano pure l’olio.
Nel piccolo soppalco che fa da ufficio mi dicono di portargliela per un controllo ogni due mesi, mi lasciano il loro numero e mi salutano come se avessi sempre abitato lì in quel quartiere e ci fossimo incontrati tutte le domeniche mattina a far colazione al bar.
Ogni volta che questa città mi delude, contemporaneamente mi sorprende.
Le luci della mia via, stasera, mi sembrano bellissime.

Come tutti gli altri.

domenica 6 dicembre 2009

carrelli

Fare la spesa la domenica mattina presto è un’esperienza strana. La città dorme, i rumori arrivano attutiti e anche gli ascensori sembrano andare più lenti.
Ma senza che ce ne accorgessimo è arrivato dicembre, il fantasma del Natale presente si avvicina e quindi il parcheggio del supermercato non è deserto come al solito.
Niente a che vedere con il delirio del sabato, certo, ma i barbari sono arrivati anche qui, a conquistare un pezzetto di una mattina di festa qualunque, incerta e pallida, dentro un mese invadente, illuminato a intermittenza.
Prendo il carrello e mi avvicino all’ascensore. Una signora di mezza età preme nervosamente  il pulsante di chiamata e poi si gira verso l’uscita, impaziente.
Si guarda intorno, poi fissa la freccia rossa che punta verso l’alto, quindi guarda di nuovo l’uscita.
- Ah, eccoti.
Parla rivolta ad un signore che arriva senza fretta, spingendo il carrello. Ha gli occhi dritti davanti ai suoi, ma non la guarda, chissà dove è. Forse non la sente nemmeno.  Non dice niente, un segnale elettronico avverte dell’arrivo dell’ascensore. Lei gli fa cenno di andare. Lui entra, lei lo segue. Io mi faccio avanti con il mio carrello e mi sistemo in un angolo. La scena è tutta loro, io sono lì per caso.
Proprio mentre da lontano spunta un ragazzo che affretta il passo per raggiungere il nostro ascensore, la signora preme il pulsante di salita. Le porte si chiudono, con una determinazione inesorabile, stringendo sempre di più il parcheggio e il ragazzo in avvicinamento, fino a nasconderli del tutto.
- Ma perché non hai aspettato? - chiede il signore, come se fosse improvvisamente tornato in vita.
- Ehhh- prende tempo lei, un po’ scocciata - non ho fatto in tempo, avevo già schiacciato …
Era stata questione di un attimo. L’aveva visto e aveva premuto contemporaneamente. C’era lo spazio per interrompere un gesto già partito, forse. Chi lo sa. Ci penso, mentre l’ascensore sale, lento e silenzioso, come ogni domenica mattina.
Il signore la guarda, lei non si gira, ma stavolta la sta guardando davvero.
E dalla sua bocca esce qualcosa che ancora adesso non so esattamente cosa fosse. Perché lo dice con un tono così freddo da poter spazzare via qualsiasi forma di affetto fosse rimasta in sospeso tra quei due.
C’è un mare gelido davanti a loro e lui ha tutta l’intenzione di buttarla in acqua. A questo punto c’è da chiedersi solo come lo farà.
- Sei come tutti gli altri.
Splash. Buttata. Trenta gradi sotto zero e sento freddo anch’io. Le parole arrivano senza esitazioni, senza scuse, senza litigi da rimandare.
Intrappolate nel ghiaccio, quasi solide, rimangono nell’aria qualche secondo.
A me sembra un’eternità.
Poi le porte si aprono di nuovo, il rumore delle casse invade l’ascensore, lui spinge il carrello, le passa davanti ed esce.
Lei rimane ferma un secondo.
Io non posso fare a meno di cercare in aria gli spruzzi d’acqua gelata di quel tuffo forzato.
E invece sento solo la voce di lei, che non parla a nessuno, un bisbiglio, quasi inesistente.
Un congegno che si spegne.
- E allora?
Suo marito è davanti a lei, si sta allontanando di spalle.
Lei fa un passo ed esce.
Il passo è quello nervoso di poco prima. Lei è quella di prima. “E allora… ” Lo raggiunge e spariscono dietro un giardino di verdure in offerta.

La curvatura di Jefferson

sabato 14 novembre 2009

strade1

A Jo e a tutti i salta-strade.

Da quando hai imparato a parlare hai scoperto anche un’altra fondamentale abilità: cambiare discorso.
Trovare un collegamento, un link,  come si direbbe su internet, che conduce immediatamente da un’altra parte, su un’altra pagina, meno ostile e più sicura.
Beh, tutti l’hanno fatto almeno qualche volta, ma per alcuni diventa quasi uno stile di vita: farsi trasportare da una parola in un territorio conosciuto e innocuo, un paesaggio che puoi descrivere ad occhi chiusi e che, in caso di necessità offre non pochi nascondigli ( e tu li conosci tutti). Non è distante , è sempre lì, a pochi passi. Non fa freddo, non fa caldo, ti senti a tuo agio.
Passano gli anni e le tecniche si affinano.
Le discussioni scorrono su un filo, serenamente, e quando si intoppano… voilà,  c’è una perfetta strada parallela su cui saltare.
Ci balzi sopra e ti senti salvo.
La vita continua ad avere il suo bel binario dritto e poco importa se ogni tanto non ci sei più esattamente dentro. Poco importa se in realtà sei a metri di distanza perché dopo tutto c’è sempre il rassicurante medesimo orizzonte che ci deve essere. Insomma la direzione è quella, anche se non ti ricordi più quando l’hai decisa.

Poi un giorno capita che, per qualche motivo, la connessione non funziona, i link non si aprono e tu sulle tue strade parallele non riesci più a saltarci.
Accenni anche qualche misero movimento, sperando di rimbalzare su uno di quei fantastici percorsi alternativi, ma non riesci ad alzare nemmeno un braccio; provi a dire qualche brandello di frase, ma non apre più nessun link.
E allora stai fermo, immobile, come nei sogni. E non dici più niente.
Hai freddo, la pioggia ti bagna e la terra diventa presto una fanghiglia.
Ti guardi intorno, hai il tuo bel vestitino imbrattato, le scarpe appiccicate e non c’è nessuno.
Non puoi far finta di esserti perso perché l’orizzonte è sempre lì davanti a te, ma se ci vuoi arrivare stavolta devi rimanere sulla ferraglia sporca di quel binario qualunque, il tuo binario qualunque,  riconoscere quella specie di poltiglia che ti si attacca anche ai polmoni  e trovare un modo per sentirtici bene.

Passa il tempo e ad un certo punto smette di piovere.
Le connessioni sembrano ritornare, ti accorgi che le strade parallele si riaprono e se provi a saltare realizzi di aver recuperato quasi tutti i movimenti.
Potresti fare mille cose e invece non ne fai nessuna.
Anzi ne fai una.
Ti siedi, nel fango.
E guardi avanti.

Sunday Morning

lunedì 5 ottobre 2009

risveglio

Dopo un numero imprecisato di vodka lemon. Dopo una serie di abbordaggi schivati con (discutibile) inventiva. Dopo un risveglio con un pugno nello stomaco.

Occhi assonnati, cd, divano.

N: Lo ucciderei quando fa così.
S: Perché?
N: Perché per amore non alza mai il culo, ma per orgoglio sì.
S: (ridendo) Normale. Regola numero due.
N: E ti viene pure a cercare capito?
S: Certo. Ti ha trovato?
N: Sì.
S: Regola numero uno.
N: ?
S: Quando ti devono dare della troia ti trovano sempre.


Sullo stereo: The Velvet Underground- Sunday Morning

Break.

giovedì 17 settembre 2009

img_vivere

Ci sono giorni in cui è come se non fossi più tu.
E’ come si ti prendessi una vacanza da quello che sei.
Così rispondi alle mail a cui normalmente non risponderesti, mangi quello che non mangeresti, parli come non parleresti.
Lo sai che dura poco e forse è per quello che è divertente. Ed è anche quasi rassicurante.
Cosa sarà mai.
Fregartene per un po’. Chiamare, scrivere, comprare. Tutto va bene purché non abbia senso. Tutto purché non abbia niente a che fare con te.
Poi ti accorgi che il break è finito, è ora di tornare a casa e allora butti le schifezze nel frigo, ti riappropri del tuo linguaggio e, lentamente, ridiventi quello che sei sempre stato.
Perché ti sia capitato non lo sai, cerchi qualche definizione prima di spegnere il computer e andare a dormire, ma non la trovi.
Forse è più semplice di quanto pensi.
Magari aveva ragione quel tuo vecchio amico strampalato che ogni tanto faceva qualche cosa che nessuno capiva e se provavi a chiedergli il motivo rispondeva semplicemente, con gli occhi limpidi e sinceri.
“Beh, volevo vivere ancora un po’”.
Così diceva.
Volevo vivere.
Ancora un po’.

Scrivanie in ordine (ovvero contenuti e comportamenti)

giovedì 3 settembre 2009

ombra

J. lo conosco da una vita.
E lui da una vita conosce me.
E sempre da una vita, o almeno da molto tempo, mi ripete che basta poco a capire le persone.
Poco? chiedo sempre io.
Si poco, ripete sempre lui.
Beh, J. riesce a semplificare tutto. E’ il suo lavoro, credo. Capire che tipo ha davanti nel più breve tempo possibile, senza girarci troppo intorno. Poche categorie, poche parole per identificare i tratti essenziali dell’esemplare umano in questione. Mica è roba facile eh. Infatti io sono mediamente un disastro. Lui lo fa da dio.
Basta eliminare i contenuti, dice lui.
Guarda i comportamenti e elimina tutto il resto, ripete. Le parole sono fuorvianti. Affascinanti e bellissime, a volte, ma fuorvianti.
Infatti J. non è che stia lì a domandare di sogni ricorrenti o farsi raccontare ricordi d’infanzia. Se lo fa è solo per divertirsi. Perché potrebbe anche chiedere la ricetta della pasta al pomodoro e sarebbe lo stesso.
Lo stesso per lui, ovviamente.
Così dice J. e così ogni volta io cerco di ricordare questa semplice regola.
Scordati i contenuti, guarda i comportamenti.
Per una come me, che di parole ci vive, non è mica immediato.
Scordati i contenuti, guarda i comportamenti.
Ok.
E finisce che, ogni tanto, ci penso la notte, quando è ora di andare a dormire, come stasera, perché prima di addormentarsi uno vorrebbe sempre avere chiaro un po’ tutto. Non che sia capitato niente, però ogni tanto viene voglia di capire. Succederà anche a te no? Come quando all’improvviso pensi che potresti anche mettere in ordine la scrivania.
E’ solo un attimo però.
Perché poi pensi anche che la scrivania non ce l’hai, il computer è sempre in giro e i libri anche.
E forse hai anche sonno.
Allora, mentre ti butti sul letto, prometti che te lo ricorderai per un’altra volta. Giuri.

Coincidenze.

venerdì 14 agosto 2009

coincidenze Questo post l’ho rimandato almeno una decina di volte. Ma l’ho promesso a E. , alla sua estate da salvare e a quella specie di strana forma che assume il caso quando assomiglia a un destino. E allora stasera è la sera giusta. Fa troppo caldo per dormire e troppo silenzio, in questa città fantasma, per sentirsi veri, in carne ed ossa. Un far west desolato in cui cercare una pistola di parole, un duello di punteggiatura mentre un fazzoletto di frasi cade a terra.

Questo post l’ho promesso ad E. perché parla di coincidenze. E lui alle coincidenze ci crede. Si, sapete quelle cose che accadono e vi sembra che siano così meravigliosamente collegate alla vostra vita da essere un segno, un’indicazione, una riga che unisce finalmente due punti.
Sono quei momenti in cui sembra che la vostra vita improvvisamente vi parli.
E non lo fa con il solito casino che si perde in un fiume di eventi, persone, discorsi e azioni.
No.
Sembra che fermi tutto, senza preavviso, e dica adesso mi state ad ascoltare.
E, siccome sa anche essere affascinante, a volte, la vita, lo farà in un modo incantevole.
Ordinato, preciso.
E incantevole.

Ecco, il mio amico E. quando la vita sembra parlargli, in quel modo lì, ammaliante, sorprendente e indimenticabile, non capisce più niente e si immerge completamente. Si affaccia su quell’ordine improvviso e lo abbraccia. C’è chi rimane a guardare. Lui è uno di quelli che si butta.
Poi però torna da una delle sue serate, si siede sul divano, prende una birra e mi chiede cosa ne penso.
Mi chiede se esistono le coincidenze, che cosa sono, cosa ci stanno a fare lì, a sorprenderci.

E’ tardi e in giro non c’è nessuno. Milano d’agosto, due amici che lavorano e che si raccontano cosa succede là fuori mentre dalla finestra non si vedono che vetri e porte chiuse.

Sembra che la vita vi parli, dicevo.
Ecco, ribaltate tutto.
E’ come un gioco di prestigio.
Sembra che lei vi parli e invece siete voi a parlare a lei.
Siete voi a mettere in ordine e poi sorridere senza rendervi conto di averlo fatto: le coincidenze sono il nostro modo di leggere la vita e di renderla meravigliosa. Siamo continuamente bombardati da incontri fortuiti di persone e avvenimenti… ma noi ne registriamo solo alcuni. La stragrande maggioranza delle coincidenze, scriveva Kundera, rimane inosservato.

Lo so già che a E. la mia spiegazione non piacerà, in realtà non è meno romantica della sua, ma forse lui non lo sa.

La sua birra finisce, la mia rimane nel bicchiere.
Si aspetta una frase-invisibilia, come le chiama lui, ma io una frase-invisibilia non gliela posso dire. Non adesso.
E quindi non gli dico niente. Di Kundera, del nostro modo di vedere e ricordare quello che succede. Di come certe cose ce le appiccichiamo addosso da soli, ai ricordi, ai racconti, ai sorrisi di mezza estate. Non gli dico niente di tutto questo.
Mi alzo. Metto i bicchieri nel lavandino e poi mi giro.
“Certo. E’ incredibile.”

Zivago

sabato 18 luglio 2009

ragnoIl telefono sobbalza all’improvviso, sul legno, in una buia campagna pugliese.

- Hey ma dove sei finita… ti sento come se fossi in un microonde.
- Eh.
- Lavori?
- Già.
- Dove sei?
- Da qualche parte, in una vecchia masseria.
- …
- …
- Hey.
- Sì.
- Ci sei ancora?
- Sì, non c’è segnale.
- Ma ti mandano sempre in mezzo al nulla. Sei da sola?
- Sì… cioè no, c’è un ragno enorme di fianco alla cassettiera.
- Ah. E dormi con il ragno?
- Sì
- Non l’hai ucciso?
- No.
- E non l’hai nemmeno buttato fuori dalla finestra…
- No. Sono troppo stanca.
- Insomma non hai fatto niente.
- Gli ho dato un nome.
- (ride) Beh, chiaro.
- …
- Non sento.
- …
- Ascolta miss linea verde ti richiamo quando torni nella civiltà, volevo solo sentire se stavi bene, se eri sempre tu, insomma.
- .. on.. ne sono proprio …icura.
- Cosa?
- Non ne sono proprio sicura.
- Mmm. Ti chiamo domani?
- Ok. Ma non riesco sempre a rispondere.
- Ci provo. Notte.
- … otte

Appoggio il cellulare sulla cassettiera, posizionandolo in bilico tra lo specchio e un libro, fino a quando non vedo una misera tacca ricomparire sullo schermo. Guardo il ragno e mi butto sul letto. Sono sfinita. Un aereo all’aba e poi chilometri e chilometri di strada. Personaggi assurdi persi in posti che forse non esistono nemmeno.
Chiudo gli occhi. Devo trovare il coraggio di alzarmi e aprire la valigia.
Il cellulare suona di nuovo.

- Pronto - rispondo appiccicandomi allo specchio, nel tentativo di non far cadere la linea.
- Una cosa…
- Dimmi.
- Come l’hai chiamato il ragno?
- Zivago.
- Ah ok. Tranquilla, sei sempre tu. Ti chiamo domani, dormi.
- Sì.

Forse dovrei mangiare, ma ho troppo sonno.
Guardo Zivago, la valigia, il letto.
Un mare di frasi che rappresentano distanze, da che qualcosa che non ho ancora capito cos’è.
Domani. Penserò domani.

On The Road

domenica 21 giugno 2009

strada

Sono stati sei mesi strani.
Iniziati a gennaio, con la neve che seppelliva Milano e con me, confusa dalla febbre, che la guardavo cadere, completamente senza suono, dalla finestra.
Arrivati fino qui, in una domenica di giugno proiettata verso un’estate di arrivi e partenze.
Dentro ci stanno persone e personaggi, obiettivi e affanni, calci e giravolte.
Difficile la strada verso la felicità, commentava ETR stamattina. A volte non sappiamo proprio quale sia. Più che la difficoltà nel percorrerla capita che si sbagli proprio strada. Cioè si fa una fatica boia, ma sulla strada sbagliata.
Già.
E allora ogni tanto conviene guardare dove siamo, cosa c’è intorno, se ci piace. Oppure se continuano a dirci che il paesaggio che abbiamo intorno è bellissimo ma noi non possiamo fare a meno di guardarlo con quel sorriso lì, un po’ a metà, incerto e sospeso come gli sguardi di Bentivoglio alla fine di un film.
Sei mesi.
Un mare di storie che si intrecciano o forse soltanto una. Inutile o fondamentale.
Adesso sono qui, senza pensare che ci sarei mai arrivata, a guardarmi intorno, con gli occhi spalancati a cercare un’altra mappa.
Se non fosse per la stanchezza si starebbe anche bene. Ma c’è da riprendere lo zaino, senza pensarci troppo su, perché adesso inizia il pezzetto di strada più difficile. A volte penso che continuerò a camminare all’infinito, altre volte penso che avrei dovuto aspettare una cartina un po’ più dettagliata, altre volte ancora che le confuse indicazioni dei passanti, a volte, sono più efficaci del satellitare.
Così… op… si va.
Sempre con gli occhioni addosso al mondo. A farseli bagnare dai temporali e asciugare dal sole. Guardando quei pochi metri di strada all’orizzonte e provando a immaginare tutto il resto. Provando a immaginare noi.
Quando prende proprio male, gonfiano i piedi e non c’è verso di andare avanti allora mi siedo, scomposta, da qualche parte, elimino l’asfalto, il traffico, i cartelli scoloriti e penso a Luciano, che attraversa paesaggi incredibili, su un treno. Oppure a nonno Pietro che prepara il caffè nella sua piccola cucina.
Magari li incontrerete anche voi, un giorno.
Nel frattempo, senza nemmeno accorgermene, ho ripreso a camminare.

Musica in pagine (ovvero quando un dj diventa scrittore).

lunedì 1 giugno 2009

libroedo

Su Invisibilia i libri compaiono spesso. Beh, a questo tengo in modo particolare. Un po’ perché lo ha scritto il mio amico Edo. Cioè “Edoardo” Rossi, storica voce di quella che fu Rock-Fm.
E un po’ perché sono pagine da ascoltare più che da leggere e per un libro che parla di musica non è poco. Insomma è un po’ come tornare a casa, sdraiarsi sul divano e accendere la radio. Mentre stai lì, a pensare che anche oggi sei troppo stanco, arrivano a farti compagnia le voci degli artisti che ti hanno seguito in tanti anni di ascolti, concerti, chiacchiere e cd. O forse sei tu che hai seguito loro. In ogni caso adesso sono lì, seduti sul divano con te, con le loro inflessioni regionali e il loro modo di spiegarti cosa sono la passione, la fortuna e gli inconvenienti.
Edo Rossi. E’ la prima volta che scrive un libro (e la seconda che ne legge uno), mi chiama prof. ed è l’unico che riesce a rispondere alla mia emo-malinconia con azzeccatissime battute da bar mario. Certo le dediche non sono il suo forte ma “Percorsi musicali indipendenti” gli è uscito proprio bene.

P.s. Sostiene anche di essere un fedele lettore di Invisibilia. Adesso vedremo se è vero…

In ascolto: Edoardo Rossi- Percorsi Musicali Indipendenti. Chinaski Edizioni

La strada.

domenica 10 maggio 2009

Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.

Leggere in viaggio non è come leggere a casa, sul divano o sdraiato sul letto.
E’ un’altra cosa. Un po’ perché hai quella sensazione del mondo che ti passa sotto o di fianco, mentre tu decidi immergerti in una storia. Ed è come se tutto venisse amplificato, come se l’idea di camminare dentro le pagine di un libro acquistasse un grado in più di realtà. E poi si cancella anche qualsiasi senso di colpa: non ci sono amici da vedere, cose da fare, problemi da risolvere. Non in quel momento, almeno. Tutto, poi, si vedrà.
Ecco, gli ultimi giorni li ho passati saltando da un aereo all’altro.
E ho letto un libro che non è solo un racconto. E’ un pugno nello stomaco. Di quelli dati bene anche.
Il mondo non c’è più. E ‘ rimasta una sterpaglia sbruciacchiata e annerita sotto un cielo grigio e vuoto. Inutile, come le parole che ormai non hanno più oggetti da indicare. In questo niente, triste e feroce, camminano un uomo e un bambino.
Allora, io non sono mai andata matta per i bambini. E ancora meno per gli adulti che parlano ai bambini. Insomma non è che perché uno è più piccolo di te allora ti puoi rivolgere a lui come se fosse un cretino. Le risposte dei “grandi” o non arrivano o fanno quasi sempre pena. Ma quei due, quell’uomo e quel bambino lì, senza nome, non me li toglierò più di dosso. Se mai scriverò una storia con un bambino, state sicuri che lui, in qualche modo, ci sarà.
Il libro l’ho finito poco prima di atterrare a Linate.
Improvvisamente mi è sembrato che intorno ci fosse un sacco di gente.
Se ci fosse stato un altro aereo da prendere, nonostante la stanchezza, la pelle bruciata dal sole e il bisogno di sgranchirmi le gambe ci sarei saltata su al volo.
Ma i viaggi vanno conclusi. Altrimenti non puoi mai iniziarne un altro.
E allora giù dalle scalette.

I-pod: Sigur Ros- Untitled 1

Friends.

giovedì 23 aprile 2009

telefono

S: Insomma… sono un disastro con qualsiasi cosa pratica.
E: (ridendo) Beh…
S: Sì, lo so che me lo dici sempre.
E : (ancora ridendo) Forse è vero.
S: Già.
E: Se tu leggessi qualcos’altro invece di tutti i tuoi libri così “invisibilia”…
S: Tipo?
E: Il manuale delle giovani marmotte potrebbe essere un buon inizio.
S: Allora dovrei cominciare oggi… In questo momento non mi sento brava a fare niente.
E: Non è vero. Ad esempio sei bravissima a scrivere quello che non sai fare.

Come fai a non sorridergli al mio amico E. Spengo il telefono. Alziamo la musica vah…

Su Mtv (eh ogni tanto la guardo anch’io): Jovanotti- Mezzogiorno.

Best Of You

domenica 12 aprile 2009

youcantalwaysgetwhatyouwant

Imbocco la Cisa lasciandomi alle spalle il traffico dell’A1.
Sono gli ultimi minuti in cui potrò ascoltare la radio, tra poco il segnale si perderà tra le montagne. C’è tempo per un pezzo, uno solo.
E’ cinematografico.
Come è stato anni fa, sulla Santa Monica Freeway. Un amico della Ze mi aveva un passaggio per il mare, io pensavo a New York che avevo appena lasciato dopo una serie di mesi, all’ultimo esame e a quello che mi avrebbe aspettato al rientro in Italia.
C’era il sole.
C’è sempre il sole, a Los Angeles.
Il traffico si era diradato, la strada era incredibilmente libera.
Lui aveva detto: quando arrivo qui, di solito chiudo tutti i finestrini e mi sparo questo pezzo.
E così aveva fatto.
Il video di quella canzone aveva una storia, lui era un regista e me l’aveva raccontata incollandomi addosso una malinconia che da quelle parole non avrei staccato mai più.
4′16” e poi la musica era  finita, avevamo riaperto i finestrini, rallentato.

Sono passati anni e in mezzo ci sono un oceano e un’altra vita.
Quello era un momento di scelte, questo è un periodo di riallineamento.
Ma la domanda, a volte, è la stessa: c’è qualcuno che sta prendendo il meglio di noi?
Guardo le montagne e immagino il mare, mentre lo stesso pezzo, in un’altra macchina, su un’altra strada, finisce.
La radio inizia a gracchiare.
150 km a casa.

Autoradio (fino a quando c’è segnale) : Foo Fighters- Best Of You

Where the streets have no name.

martedì 24 marzo 2009

strade2

Chi mi conosce sa che praticamente non possiedo il senso dell’orientamento. Si sono proprio dimenticati di metterlo nel mio patrimonio genetico (insieme ad un altro paio di cose… ).
Che dire. Mi perdo da quando ero piccola e quindi, in parte ci sono abituata. Non riesco a usare gli elementi geografici come punti di riferimento (fiumi, montagne etc.) né tanto meno a dare un senso ai reticoli di strade. Nord sud est ovest… non ho mai capito da che parte fossero a meno di non trovarmi di fronte a un tramonto (ma, lo sapete, su invisibilia, il sole non tramonta mai :-)) e spesso sbaglio anche con il navigatore: giro troppo presto o troppo tardi o semplicemente mi dimentico e tiro dritto.
Insomma se doveste decidere di abbandonarmi da qualche parte, state pur certi che non tornerò a casa. O almeno non di proposito.
L’unica cosa che sono capace di fare è continuare a vedere facce, parole, espressioni, episodi e ogni tanto provare a raccontarli. E allora, l’altra sera in macchina, davanti all’ennesima strada di cui non ricordavo il nome ho pensato che in realtà quella strada lì il nome non ce l’avrebbe mai avuto. Quella strada era quella in cui avevo cercato di rispondere ad una raffica di domande. E poco più in là c’era quella dove andavo a prendere la pizza quando avevo bisogno della leggerezza di un cartone su cui scrivere sottovoce. E proseguendo avrei trovato l’angolo in cui avevo promesso a TJ che avremmo buttato bambole nel naviglio e, a destra, la strada in cui avevo pensato di abitare se avessi scelto una vita completamente diversa con, a fianco, il controviale alberato dove ho incontrato per caso l’abbaglio di un ricordo. L’incrocio invece è quello dove ho messo un pezzetto di vita nelle mani del mio amico J, come quando lasci il volante di una macchina perché fosse per te scenderesti volentieri e molleresti tutto lì ad arrugginire. La piazza dopo il semaforo quella in cui non smettevo di ridere e sentivo quanto è bello, a volte, non dover pensare a quello che verrà.
Ecco, questo è esattamente quello che ho fatto negli ultimi mesi. Ho viaggiato in questa città, passeggiato in questo mondo di strade senza nome. No, non sono tornata a casa, se ve lo state chiedendo, non questa volta, sono ancora lì a gironzolare. Forse nemmeno ci tornerò. Ma ho scoperto, con stupore, di non essere capitata chissà dove e soprattuto di sapermi orientare, seppure in modo buffo e approssimativo, lì dentro. Me ne sono accorta così, a caso, qualche sera fa, mente tornavo da un concerto. Ed ho pensato che può essere affascinante perdersi senza sapere dove accidenti sei andata a finire ma è altrettanto emozionante, ogni tanto, ritrovarsi.