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Play.

lunedì 3 dicembre 2007

Il lunedì mattina se ne sta lì e il suo scopo è chiaro: farci pensare che qualcosa stia di nuovo iniziando, far ripartire la macchina dei buoni propositi, far sì che riprendiamo un apparente controllo sulle nostre vite iper organizzate.
Ma tutto quello che avevamo lasciato è rimasto ad aspettarci e adesso ci sembra ancora più complicato di come l’abbiamo lasciato venerdì.
Vorremmo rigirarci nel letto oppure buttarci in macchina e andare dalla parte opposta.
Invece siamo davanti ad una specie di videoregistratore in pausa. Con nessuna voglia di premere play. E nel fingere di dimenticare quel tasto ci sembra di poter decidere qualcosa.
Ma se non facciamo niente e aspettiamo più di quanto ci è permesso, alla fine la macchina riparte da sola.

Sullo stereo (appoggiato su due scatole, ma sopravvissuto al trasloco): The Postal Service- Such Great Heights

Come è andata a finire (da leggere solo se avete letto “chiavi in buca”).

venerdì 30 novembre 2007

Il campanello suona alle otto meno un quarto. Io mi infilo la felpa sopra i pantaloni del pigiama, sperando che sembri una tuta. Scarpe, riflesso di capelli scompigliati nello specchio appoggiato alla parete, scale. Ed eccoci qua. Con i fantomatici tecnici dell’ascensore. Ovvero un signore sulla sessantina e un giovinetto che avrà avuto sì e no vent’anni.
Lui balza giù, nella maledetta fossa, e recupera le chiavi. Non faccio in tempo a dire grazie che sono già spariti. Faccio in tempo pero’ a fare le scale di corsa e accorgermi col fiatone che manca l’antifurto della macchina. Volo di nuovo giù, di nuovo li richiamo, di nuovo loro tornano e si ributtano nella fossa.
Lei dovrebbe offrirci un caffè signorina.
(Stanno facendo tutto gratis)
Certo possiamo andare al bar.
(Il mio caffè sarebbe una punizione. Quando non lo rovescio , è acqua colorata)
Ma non ci andiamo. Il ragazzino riesce a trovare un pezzo, poi un altro, poi la scheda elettronica. E in men che non si dica i due fuggono di nuovo.
Fantastico. E’ tutto rotto.
Provo a ricomporre. Non funzionerà mai, penso.
Esco fuori, così, metà in pigiama e metà rassegnata e raggiungo la macchina.
E schiaccio il pulsante.
La macchina si illumina.
E io con lei.
Poteva finire qui. Doveva finire qui. E invece. Dietrofront. Dieci minuti davanti alla porta di casa per poi suonare al mio coinquilino: la chiave principale non apre più.

E adesso, come direbbe la Gabanelli a Report, la buona notizia.

TITOLO: Lascia Perdere, Johnny
SOTTOTITOLO: Il post di qualche sera fa, ma con un titolo migliore

Ho cercato a lungo una buona notizia e oggi proprio non c’era verso. Adesso, dopo due gin lemon buttati giù affogando la tristezza in una festa per il guitar hero e dopo due fette di torta al cioccolato trangugiate davanti al computer, mi torna in mente Johnny, con i suoi diciotto anni e la sua chitarra.
Un scalcagnata band degli anni ‘70 e un artista al tramonto.
Debutto alla regia di F. Bentivoglio (ve l’ho già detto che mi sono innamorata?). Il film esce domani nelle sale e qualche giorno fa mi ha fatto sorridere. Sempre con un po’ di malinconia, pero’ ho sorriso.
Perché non sei fregato veramente finchè hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla.

P.s. Per mio fratello, nel caso passasse di qua. C’è anche Toni Servillo…

Chiavi in buca.

mercoledì 28 novembre 2007

E’ successo di nuovo. Il post di stasera doveva essere un altro. Vi scrivo anche il titolo se volete. Ero indecisa tra un adolescenziale “Mi sono innamorata. Di nuovo” e un didascalico “Lascia perdere, Johnny”. E invece la mia proverbiale disattenzione, la mia testa in perenne sovrappensiero e il mio corpo che la segue, con incomprensibile arrendevolezza, hanno ribaltato l’ordine del giorno. E infatti eccomi qui che scrivo, per l’appunto, “chiavi in buca”.
L’inizio è una divertente cena a casa con il mio amico matematico, dopo tanto tempo. Anni forse. Aggiornamenti, ricordi, riferimenti al vecchio glorioso palco di Music Match Live. Dopo tutto anche noi ci siamo incontrati lì. Lui suonava, io riempivo i vuoti tra una band e l’altra. Le vaschette del take away sono ormai vuote quando noi usciamo. Chiamo l’ascensore e per una serie di coincidenze assurde, nel momento in cui la porta si apre, le chiavi mi scivolano dalle mani.
Avete mai vagheggiato sulla velocità del vostro pensiero?
In un microscopico frammento di tempo io ho avuto modo di pensare: “Ma vuoi vedere che adesso le chiavi vanno a finire proprio in quella fessura che si è aperta tra il pianerottolo e la porta dell’ascensore? Ma va. Che sfortuna sarebbe”.
Fine del pensiero.
Abbasso lo sguardo, ascolto il rumore di chiavi che cadono.
Sono cadute proprio in quella fessura che si è aperta tra il pianerottolo e l’ascensore.
Chiavi di casa, della macchina, della cassetta delle lettere.
Guardo il mio amico M. con sgomento. Non riesco ad arrabbiarmi. Rimango ferma. E lo guardo.
Qualsiasi altra persona mi avrebbe mandato fuori di testa.
Lui no.
Perché M. ha fatto della razionalità il suo lavoro. Dell’intelligenza e dell’intuito il suo mestiere. E adesso reagirà in modo razionale, intelligente e arguto. Lo so. Per favore M., reagisci in modo razionale intelligente e arguto.
Voi non lo conoscete. E quindi penserete. Si va beh. Adesso perché insegna matematica all’università hai tutta questa fiducia?
Beh, avete presente il protagonista di Numbers, la serie tv con il giovane matematico che sfrutta le sue conoscenze per aiutare gli investigatori a risolvere i casi? Beh lui è un po’ così.
Solo che qui non è morto nessuno, ma se fossi stata delle dimensioni giuste istintivamente in quella buca mi ci sarei buttata anch’io.
Invece sono rimata qui e adesso non ho la minima idea di dove possano essere le stramaledette chiavi. E non saprei da dove cominciare. Si saranno fermate da qualche parte in quel tunnel fatto di canaline. In quale altro posto potrebbero essere finite? E dove è inutile cercare? Per me c’è solo il caso.
M. dimmi qualcosa.
M. infatti con estrema tranquillità osserva tutto, si fa con me tutti i sei piani a piedi, controlla ogni volta gli unici posti dove cadendo da quella fessura potrebbero essere finite (per me potrebbero essersi fermate ovunque), si arrangia con la luce del cellulare e alle fine le trova.
Non possiamo recuperarle da soli ma sappiamo dove sono.
E io comincio a respirare.
- Da qui l’unico modo sarebbe quello di attaccare una calamita a un filo, sempre che tu abbia un portachiavi di metallo, suggerisce lui.
- Le chiavi non sono di metallo?
- E’ un metallo diverso, non va bene. La calamita non le attrae.
- Ah.
Chiamo la ditta dell’ascensore. Tento di spiegare alla centralinista qual è il problema. Mi preparo un lungo discorso.
- Allora le mi chiavi si sono andate ad infilare nella fessura che c’è tra …
- Ah si. “CHIAVI IN BUCA”.
Chiavi in buca? E cos’è un colpo di biliardo?
Lascio i miei dati a quella anonima voce femminile e, mentre anch’io mi sento un po’ meno speciale, accompagno M. alla fermata del tram.
- Beh il tipo di Numbers a quest’ora te le avrebbe già recuperate, scherza lui.
- Figurati. Ci penseranno domani mattina i tecnici dell’ascensore.
Stasera ho imparato un nuovo colpo. Chiavi in buca. Per quando deciderete di lasciar tutto alle spalle e trasferirvi a New York. Basta macchina, basta casa, basta bollette e fatture. Chiavi in buca. Ma assicuratevi di non avere un matematico vicino.
E, adesso che sto per andare finalmente a dormire provo a vedere il lato positivo: il titolo del post mai pubblicato stasera faceva cagare.

I punti dopo le virgole

domenica 25 novembre 2007

Parlare non è difficile, lo facciamo tutti. Ma raccontare storie, quella è un’altra faccenda.
Queste sono quelle di chi passa attraverso i muri, dei comunisti marziani, dei ripetitori di parole al contrario, dei lavoratori notturni che tornano a casa da soli. E poi dei raccoglitori di pomodori. Ma non i pomodori che crescono nell’orto. No, quelli che stanno nei call center. Raccoglitori di telefonate a 85 centesimi, lordi, ogni dueminutiequarantasecondi. E poi più niente.

Ascanio Celestini. Appunti per un film sulla lotta di classe.
Quando passa dai teatri delle vostre città correte a prendervi un biglietto.

Bright And Early For The Daily Races

venerdì 23 novembre 2007

Piove ininterrottamente da giorni, la luce sembra essere stata inghiottita per sempre da qualche piega spazio-temporale e io mi aspetto che prima o poi salti fuori un replicante.
Nel frattempo sogno unicorni.
Qualcuno verrà a prendermi?

In radio: Gary Jules- Mad World

This Is A Place Where I Don’t Feel Alone

lunedì 19 novembre 2007

Oggi ho perso una ventina di numeri di telefono, ingoiati dalle mille pieghe digitali di un cellulare di ultima generazione e ne ho trovato uno, saltato fuori da un vecchio telefonino senza colori.
Oggi ho iniziato l’ennesimo romanzo in una sala d’attesa.
Ho mangiato l’ultima valdostana prima di lasciare di nuovo la Toscana.
Ho visto la neve sulla Cisa.
Ho pensato che ieri sera mi è mancato qualcosa.
Ho ricominciato a bere Coca Cola
Ho quasi baciato Pif.

E’ un lunedì di novembre, freddo, sospeso tra l’inverno e quello che verrà.

I-tunes: The Cinematic Orchestra- To Build A Home

It’s Only Rock’N'Roll

venerdì 16 novembre 2007

Pamela Des Barres è la groupie più famosa della storia del rock.
Porta con se i segreti di Jim Morrison, Mick Jagger, Keith Moon, Robert Plant, Jimmi Page. E tanti altri. Provate a pensare ad una rockstar degli anni ’60 e ’70. Lei l’ha conosciuta. Pensatene un’altra. Ha conosciuto pure quella. E nella maggior parte dei casi la cosa è andata anche oltre.
Incontro Pamela nel camerino di YN venerdì alle 5. Capelli rossi, occhi chiari che si attaccano addosso e non ti mollano, ti scavano dentro buttando all’aria qualsiasi specie di facciata tu possa aver indossato per l’occasione. Osserva, ascolta con attenzione, ma non ti prende troppo sul serio. Ha uno sguardo vivo e intelligente che sembra giocherellare sempre con qualcosa. I capelli, lo specchio, io che le sto davanti e quello che le dico. Le spiego che manderemo una clip speciale sui Sex Pistols, che forse le chiederemo di commentarla, magari ha incontrato pure loro. Mi fissa. E mi racconta un dettaglio, diciamo così, intimo di Steve Jones. Beh, se vuole mettermi in imbarazzo non le sarà certo difficile. Poi forse si accorge di aver esagerato. E aggiunge, stavolta con una dolcezza che non so da dove arrivi: conosco tutti.
Già. Lei è Pamela Des Barres. E io sono una che potrebbe esser sua figlia, una che gli anni ’60 e ’70 li ha visti solo al cinema e che scrive un programma in cui alcool e sesso non si possono nemmeno nominare per sbaglio.
E’ tardi, dobbiamo andare in studio. Lei butta giù la testa e scuote i capelli, scompigliando il lavoro di chi si è occupato della sua acconciatura. Li vuole vaporosi e gonfi. E invece le hanno fatto solo qualche riccio ordinato. Allora ci pensa da sola, non sembra prendersela. Nonostante tutto, lasciando perdere le tre persone della casa editrice che la seguono e tutti quelli che sono venuti a salutarla o anche solo, curiosi, a vederla, sembra una che sa arrangiarsi.
Sono indecisa, non mi piace chiedere autografi, non ne chiedo quasi mai. Pero’ ho la mia copia del suo libro nella borsa e allora penso perché no. Le chiedo di firmarlo.
Lei mi guarda, ancora quegli occhi che addosso a qualcun altro diventerebbero inevitabilmente freddi, ma che su di lei invece acquistano vita, e tutto quello che dice è : “Mmm”.
Mentre scrive, lentamente, ci chiamano. Finisce, chiude il libro, me lo passa e corriamo in studio.

Stessa giornata. Mezzanotte e venti. Ascensore (lentissimo) di casa mia. Torno a casa dopo questa frenetica giornata. Ma ormai si assomigliano tutte. Dopo lo show sono scappata con TJ alla proiezione per Mtv di Across The Universe, il musical di Julie Taymor costruito interamente sulle canzoni dei Beatles. Divertente vedere in quanti e quali modi vengono reinterpretate. Let it Be diventa addirittura un gospel per un funerale.
Frugo nella borsa per cercare le chiavi e mi scontro nel libro di Pamela. Improvvisamente mi ricordo. Lo apro, velocissima, e corro a leggere.
Sorrido. E mentre mi chiudo alle spalle la porta di casa ripenso a questa giornata così sixties.
Appoggio il libro sullo scaffale dei cd. La libreria, in questo soggiorno, non c’è ancora.
Chissà quanti avrebbero voluto vivere la vita di Pamela. Ma a lei in fondo non è sembrato niente di così impossibile. L’ha capito nel 1965. Dopo tutto, le star, non sono altro che esseri umani.
E’ vero: “Sara, It’s only rock’n’roll”.

6:50 a.m.

domenica 11 novembre 2007

Stamattina mi sono alzata presto e sono andata a correre. C’era quel vento freddo che sa di inverno e di montagne. Sapete quando correte fino a togliervi il fiato, l’aria gelida vi da un po’ alla testa e tutto intorno si cancella? Più o meno così, solo che a svanire non erano la strada semivuota, gli alberi mossi dal vento o le macchine immobili, addormentate in parcheggi occasionali. Non erano nemmeno gli sporadici, solitari passanti, con la camminata ammortizzata, in tutto quel silenzio.
Ero io, lentamente, a sparire.
E quando sparisci puoi permetterti di pensare quello che vuoi. Tanto non ci sei. Per nessuno. Un po’ come quando ti addormenti. I sogni sono solo tuoi.
Così gli ultimi giorni mentalmente si incrociano, si confondono, si rubano il posto a vicenda, con le sperimentazioni sonore degli Early Years in sottofondo, l’entuasiasmo dei Bedouin Soundclash, irrefrenabile, che invade tutto, il perfetto show dei Cosi che si affianca e i falsetti dei giovani cantanti di Jesus Christ Superstar che giocano inserendosi qua e là.
Sono trasparente. Tutto è trasparente. Il vento si è fermato.
Schiaccio sopra un nome e si apre una finestra. Come su un menù digitale. Early Years. Un nome che suona come una vecchia compilation di un artista consumato. Invece loro sono giovani e preoccupati di come tradurre la parte consistente di elettronica che ha la loro musica nel set acustico di Your Noise. Due di loro rimangono fuori, backstage, anche durante l’intervista. Il batterista, che appare il più disinvolto e a suo agio, con una birra in mano si mette e chiacchierare. Clicco su di lui e si apre un’altra finestra. Quella del loro show case, alla Casa, il giorno dopo. TJ è di fianco a me, ormai arresa a una stanchezza che difficilmente quel misero bicchiere di vino che ha in mano si porterà via. Tento di spiegargli, a grandi linee, che tipo di musica fanno quando lui arriva, inaspettatamente mi riconosce, io gli presento TJ e lui mi ringrazia per essere lì, per avercela fatta. Poi corre via, è tardi, devono iniziare a suonare.
La finestra si chiude, TJ scompare e io mi ritrovo di nuovo nello studio di YN. Stavolta sulla nostra pedana ci sono I Cosi e sembra di fare un salto negli anni ’60, invasi da un’atmosfera super retrò. Hanno appena cominciato l’intervista, e sembrano nati per stare in televisione, quando sbiadiscono anche loro. L’immagine scolora via e al posto dei Cosi compaiono Gesù, Maddalena e Giuda. Emozionati e sorridenti. Ci invitano a teatro a vedere l’edizione italiana del musical. E intanto penso a dove posso aver incontrato uno di loro, in un’altra vita forse. A Roma, magari. No, non ci stava provando. Me ne sarei accorta. O forse no. Ma non sembrava il tipo. Chissà che non c’entrino di nuovo quei tre mesi assurdi di Rai.
Anche loro d’un tratto si sbriciolano, spazzati via dall’entusiamo un po’ irrequieto dei Bedouin Soundclash, Il cantante-chitarrista continua a ridacchiare, ci sono ragazzi vestiti con dei grossi lenzuoli che si aggirano ovunque. E’ il nostro toga party, gli spiego. Toga party? La cosa lo fa ancora più ridere. Ok, mi sta prendendo in giro. La sua risata diminuisce di volume, si trasforma in “scusa, non voglio complicare il tuo lavoro” e poi si annulla nel vento freddo che ha ricominciato a soffiare.
Quel vento freddo che sa di inverno e di montagne.
Sono riapparsa da qualche parte.
E non so a quale distanza.
Le strade sono ancora deserte, gli appartamenti addormentati, ai passanti sono stati aggiunti dei cani al guinzaglio.
Devo solo capire dove sono e se ho davvero voglia di tornare a casa.

Soundtrack: The Early Years- All One And Zeros, I Cosi- Rosa, Bedouin Soundclash- Walls Fall Down, Maddalena (Jesus Christ Superstar) - I don’t Know How To Love Him

Probabilità o Imprevisti.

venerdì 9 novembre 2007

Avete presente quando eravate piccoli e qualcosa non andava vi veniva da sbatttere i piedi e da dire “non gioco più”. Ecco. Vorrei sbattere i piedi e dire “non gico più”. Almeno per qualche giorno. Mi serve una tregua da questa settimana infernale in cui si è rotta qualsiasi cosa si potesse rompere, il lavoro, se possibile, si è ancora moltiplicato, e i soldi, come sempre, se ne sono andati troppo presto.
Ieri sera mentre stavo esplodendo sommersa dai libri, i comunicati stampa, i cd e soprattutto le e-mail (ne ho ancora 122 da leggere nella casella di posta del lavoro, ma perché nessuno prende più il telefono in mano e chiama?), mentre pensavo al cellulare rotto, il calorifero da aggiustare, il frigorifero semivuoto, l’assicurazione della macchina scaduta e la mia lista di “cose da fare” che si ingrossava pericolosamente sbordando dal foglio macchiato di caffe e cioccolata, avrei avuto voglia di chiudere casa buttandomi dietro le chiavi. Andarmene fuori al buio a sedermi su una panchina e guardare le macchine passare.
Invece sono scesa a comprare una pizza e poi mi sono sdraiata nel mio soggiorno in mezzo alle scatole ancora da sistemare. Lì dove prima o poi andrà il divano.
Ho pensato alla scritta in camera del mio coinquilino, a caratteri cubitali, davanti al letto. Stay Positive. Gli americani…
Quasi al buio (questa storia di non mettere i lampadari non è certo il massimo della praticità) mi sono messa ad ascoltare le voci di chi si era fermato per l’aperitivo nel locale qui sotto. Quando mi calmo divento sempre un po’ triste.
Non si puo’ smettere di giocare, ma allora vi prego, fatemi almeno saltare un turno.

Death Clock

venerdì 2 novembre 2007

E’ il 2 novembre, sto scrivendo i testi della puntata YN di oggi e l’unico ponte che vedo è quello sulla Martesana.

E alla mia morte, che avverrà alle 2:30 di notte, mentre riordino il mio ripostiglio di esplosivi, mancano 1.842.038.599 secondi

… 598

… 597

E voi?

http://www.newsky.it/deathclock/deathclock/index.htm

E Poi (tranquilli, la canzone di Giorgia non c’entra niente).

martedì 30 ottobre 2007

A distanza di una settimana, incontro ancora qualcuno che mi dice: ma allora sei stata al Joia. E ogni volta sento lo stesso senso di straniamento, un po’ come se qualcuno mi avesse pedinato. Non mi ci abituerò mai.
Ma la cosa più strana è che c’è stata una persona che ha aggiunto: e poi? E poi cosa, ho pensato. Non l’ho detto pero’. Al contrario ho cominciato a chiedermi se non mancava qualcosa. E se qualcuno avesse davvero pedinato non i miei passi ma i miei pensieri.
E poi.
E’ passata più di una settimana e forse non ha più senso stare qui a scrivere. Ma è come se sentissi di dovere qualcosa a qualcuno. Se è vero, saldo il debito.

E poi salgo in macchina per tornare a casa.
Mentre guido, mi torna in mente un pomeriggio di un paio di anni fa, nei corridoi della Rai, mentre con una mano mi infilavo un paio di scarpe con il tacco, un po’ malconce, e con l’altra addentavo un panino visibilmente preparato a casa.
Uno dei tecnici si era avvicinato, mi aveva detto due parole e se ne era tornato al suo lavoro. Mi ricordo che mi ero fermata un secondo, un po’ sbilanciata su una gamba sola ma soprattutto senza una frase su cui appoggiarmi. Non avevo nemmeno potuto rispondere, era arrivato l’assistente di studio e avevo avuto solo il tempo di scuotere via le briciole e raccogliere i miei fogli.
La sera, sul trenino che da Saxa Rubra mi riportava in centro, ci avevo scherzato su, per poi dimenticarmene completamente nel lungo tragitto da Piazza del Popolo a Trastevere: l’autobus, come al solito non arrivava e quindi, con solo una manciata di euro in tasca, non restavano che quaranta minuti a piedi.
Adesso guido per tornare a casa dopo il famoso Joia, penso che i soldi per quella cena di “alta cucina naturale” io forse non li avrei nemmeno avuti nel portafoglio e mi viene in mente quella stupida domanda retorica.
“Sei bella, ma perché non ti sposi qualcuno con i soldi e smetti di affannarti?”
Non era un complimento, non ci pensate, la bellezza lì era solo un insieme di tratti e lineamenti con alta probabilità di essere graditi ai più. Voleva essere piuttosto una specie di invito a godersi la vita.
Sono sempre in macchina e continuo a guidare. Che banalità. Ma dai corridoi della Rai, i pensieri saltano velocemente ad uno scambio di battute fatte qualche sera prima, in taxi, con TJ. Rimangono invischiati in quel taxi per un po’ ma poi, quasi senza che me ne accorga, escono da una piccola fessura e finiscono a New York. Lì si fermano, come al solito: quanto mi piacerebbe tornarci il mese prossimo, anche solo per un week end…
E’ chiaro che i soldi danno leggerezza. Comodità. A volte anche un po’ di euforia.
Parcheggio sotto casa e raccatto dalla macchina carte sparse di merendine. Uno dei miei pranzi o delle mie cene, non me lo ricordo. Gita di pandispagna all’albicocca in un freddo quartiere del nord (da servire freddo, con la marmellata un po’ attaccata al cellophane e con un rumore di pioggia sui vetri) . Sorrido fra me e me. Poi raccolgo i libri da finire di leggere, qualche rivista e dei cd.
Osservo mio fratello, che si è quasi addormentato, e le mie scarpe. Senza tacco.
Si riparte, ma stavolta, giuro, è davvero la fine.
Le nuvole scorrono veloci, mi soffermo, le osservo. E le blocco.
E’ solo un attimo quello in cui mi accorgo che nessun altro avrebbe potuto farlo al posto mio. Per una frazione di secondo si puo’ anche dire. Felice? Felice.

TJ

mercoledì 24 ottobre 2007

A grande richiesta vi comunico, nel caso non l’aveste già scovato che il tanto atteso spin off di TJ se ne sta qui in attesa che il vostro personaggio preferito si decida ad aprire un blog tutto suo. Ma allora, forse, dovrei iniziare a preoccuparmi.

Sotto una coltre. Di Joia.

martedì 23 ottobre 2007

Uno dei seguenti è il vero nome di uno dei piatti del ristorante Joia di Milano:

1. fantasia di funghi in profumo di erbette
2. delicatezza di fragole e ricotta accompagnate da cialde croccanti alle verdure
3. nuvole scorrono veloci, mi soffermo e le osservo felice

Avete il tempo di questo post per rispondere.
Mentre scorro lentamente il menu, ripenso a come mio fratello, approfittando di un momento di confusione, tra mille messaggi che saltellavano sul messenger e il solito milione di cose da scrivere al lavoro, mi abbia incastrato. Alla fine della conversazione era rimasta una frase, lì che lampeggiava.
Allora prenoto.
E così mi ritrovo seduta in una saletta, con un cameriere che attende discretamente, a tentare di capire se qualcuno mi sta prendendo in giro o se veramente un senso da qualche parte c’è. Mentre lo cerco l’occhio mi cade inevitabilmente sui prezzi. Guardo mio fratello quasi terrorizzata. Un piatt(ino) costa sui venti o trenta euro. Il menù di assaggio più economico sessanta.
Lui se ne sta lì tranquillo mentre consiglia sassi che rotolano, uova apparenti, ritorni alle origini.
Mi sorride. La cena la offre lui.
Adesso, mio fratello non è certo uno che naviga nell’oro. E non è nemmeno un fighettino. Gira con una vecchia uno del ‘90 (ogni inverno che riesce a superare, rattoppata dal mitico meccanico Ghiselli, non ci si crede), ha un cellulare che se lo guardi ti viene da dire “cavoli, me lo ricordo questo!” (e vale solo per la generazione dei trentenni), porta gli stessi jeans che usava al liceo (ma le mode girano, prima o poi tornerà in fase) e appena ha due giorni liberi se ne fugge in un piccolo paese della Val Pusteria (lo chiama “il paesello”).
Sto già pensando, va beh me la caverò con un primo, quando vedo arrivare sei mini-tortellini. Gliene faccio assaggiare uno e me ne rimangono cinque. Cucinati in modo fantastico, con una serie di salse con pesto mandorle e del formaggio che non riconosco. Ma sempre drammaticamente cinque.
E quindi mi vedo costretta ad ordinare qualcos’altro.
Nel frattempo arriva il gong. Che cos’è il gong? Un piatto composto da un minitortino di formaggio accompagnato da insalata e da un suono. Indovinate quale. Il cameriere ti serve e provvede a completare la combinazione suonando un piccolo gong. Beh.
Sperimentazione culinaria, d’accordo. Nuove e intriganti combinazioni di sapori, è vero. Ma adesso mi prendete anche un po’ in giro. Diciamocelo e ridiamoci tutti un po’ sopra. E infatti ce lo diciamo. E ci ridiamo anche un po’ sopra.
Ed è ora che è arrivato quel tocco di innegabile inutilità che forse inizio a rilassarmi davvero. Incredibilmente comincio a divertirmi.
Ce ne andiamo solo dopo dolce e caffé, quando ormai è quasi mezzanotte e io non saprò mai quanto abbiamo speso.
Nuvole scorrono veloci, mi soffermo e le osservo. Felice?

La giusta distanza

venerdì 19 ottobre 2007

Sono le dieci di mattina quando entro di corsa in un cinema del centro. E per un attimo mi sembra di nuovo di tornare ai tempi dell’Università con le proiezioni dei film al mattino, nella sala cinema della Facoltà di Lettere di Siena.
Sfiorando il ritardo e tentando di non perdere per strada i troppi oggetti che dalle mani tento di distribuire nelle tasche e nella borsa stracolma, vado a sedermi, oggi come allora, troppo vicina allo schermo. Quando sono da sola succede sempre così. Se nessuno mi trattiene, la tentazione è sempre quella di appiccicarmi alle immagini, tuffarmici dentro.
Il film comincia. Proiezione per la stampa del nuovo lavoro di Mazzacurati, La giusta distanza, in uscita domani nelle sale.
Prima che spegnessero le luci ho fatto in tempo a leggere, in grassetto, sulla prima pagina della cartella, la preghiera di non svelare l’intreccio e l’epilogo della storia.
E io non ve lo svelo. Anche perché qui la storia non è tanto la trama (seppure intrisa di giallo) o l’implicita condanna del pregiudizio come simbolo dei nostri tempi (che così, da sola, parrebbe un po’ scontata) quanto il luogo in cui avvengono le vicende. Il film è tutto in quel quadrilatero di terra piatta e nebbiosa, dimenticato da qualcuno alle foci del Po’, un mondo accogliente e inospitale allo stesso tempo, sconosciuto e tuttavia familiare, fatto di personaggi resi immobili, grotteschi o comici dalla vita di provincia. Paesaggi naturali e umani si descrivono a vicenda. Concadalbero da qualche parte io l’ho già visto, ascoltato, respirato. Quei personaggi così efficacemente tratteggiati li ho incontrati, salutati e a volte dimenticati. Certo che saperlo raccontare pero’ è un altro paio di maniche.
La giusta distanza è quella che un giornalista dovrebbe riuscire a tenere tra sé stesso e i fatti. Se rimani troppo lontano rischi l’indifferenza ma se ti avvicini troppo l’emozione potrebbe abbagliarti.
Scorrono i titoli di coda quando una giornalista si alza e a voce alta butta lì una frasetta insipida che, senza usare nemmeno un aggettivo, distrugge il film. E se ne va. Peccato che sia stata metà del tempo a scrivere messaggi sul cellulare e che abbia pure risposto ad una chiamata conclusa con un “ti richiamo dopo qui c’è casino”. Già. La scena della festa in paese. Che sfiga proprio in quel punto.
Se io, come al solito, sono saltata in braccio allo schermo lei è praticamente rimasta fuori dalla porta. Chissà cosa ci avrebbe detto il consumato giornalista Bentivoglio.